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L’OSSERVATORE ROMANO.
Nuovi documenti sugli aiuti prestati dal vescovo agli internati ebrei e politici del campo di concentramento di Campagna 

DI GIOVANNI PREZIOSI.

 Pio XII era al corrente e in almeno cinque occasioni intervenne di persona 

Nella primavera del 1940 l’avanzata tedesca sui vari fronti di guerra, indusse Mussolini — che fino ad allora aveva sbandierato la non belligeranza per nascondere l’impreparazione militare italiana — a ritenere che fosse ormai giunto il momento propizio di accantonare definitivamente il disimpegno dell’Italia e di schierarsi al fianco dei paesi dell’Asse. Gli appelli alla pace del Papa, e i reiterati tentativi di impedire l’entrata in guerra dell’Italia da parte di Roosevelt e di Churchill caddero com’è noto nel vuoto, il 10 giugno di quell’anno. 

Alcuni giorni dopo, in virtù di un’apposita circolare emanata a tutti i prefetti del Regno dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, scattarono i primi sistematici arresti e il trasferimento nei campi e nelle località d’internamento di tutte quelle persone ritenute «pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico o di commettere sabotaggi o attentati nonché le persone italiane e straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l’immediato internamento», 

compresi «gli ebrei stranieri residenti in Italia e specialmente quelli che venuti con pretesti, inganno o mezzi illeciti». 

La storia che si sta per raccontare si svolge a Campagna, un paesino dell’entroterra campano a ridosso della Piana del Sele, in provincia di Salerno dove, a partire dal 16 giugno 1940, incominciarono ad affluire i primi gruppi di internati, che vennero reclusi nelle due ex caserme Concezione e San Bartolomeo; inizialmente sotto la direzione del commissario di Pubblica sicurezza Eugenio De Paoli. Quello di Campagna, in effetti, era un campo di concentramento per internati civili di guerra e insieme agli ebrei furono inviati anche oppositori politici. Si trattava per la maggior parte di casi di profughi ebrei provenienti dalla Germania, dall’Austria, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia ed ebrei di Fiume divenuti apolidi; nonché anche di alcuni cittadini inglesi, francesi e un gruppo di quaranta ebrei italiani. Ai più bisognosi veniva corrisposta una diaria giornaliera di 6,50 lire con la quale, tuttavia, non riuscivano a far fronte a tutte le esigenze, considerato che alcuni avevano bisogno di particolari cure mediche poiché affetti da patologie piuttosto serie. 

Naturalmente tutto ciò non poteva lasciare indifferente il vescovo del luogo, monsignor Giuseppe M. Palatucci il quale, appena si rese conto della situazione ritenne fosse suo preciso dovere di cristiano intervenire per cercare almeno di alleviare le precarie condizioni nelle quali versavano gli internati. Per poter venire incontro alle numerose richieste d’aiuto che gli pervenivano quasi quotidianamente, il presule allestì un’efficace rete di contatti che si articolava seguendo almeno cinque direttrici: la Segreteria di Stato della Santa Sede in primis; la Nunziatura Apostolica in Italia mediante monsignor Francesco Borgongini Duca; le autorità politico-istituzionali italiane — tra le quali spiccano il direttore del campo di concentramento di Campagna Eugenio De Paoli e il medico Fiorentino Buccella; il responsabile dell’ufficio internati presso il ministero dell’Interno, commendator Epifanio Pennetta, il ministro d’Italia in Croazia Raffaele Casertano; e, infine, ma non ultimo, il nipote del presule Giovanni, il celebre commissario di Fiume, nonché il referente romano della Raphaelsverein padre Antonio Weber. Senza contare poi varie personalità ecclesiastiche — come, ad esempio, il cardinale Pietro Boetto 

arcivescovo di Genova, l’arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, l’arcivescovo di New York Francis Spellman e altri. 

La profonda stima che queste personalità nutrivano nei confronti del vescovo di Campagna, lo aiutò senza dubbio a ottenere molto spesso provvidenziali aiuti. Difatti tra le oltre 5.000 pagine compulsate delle carte di monsignor Palatucci, custodite presso l’Archivio provinciale dei frati minori conventuali di Napoli, oltre a quelle già note lippis et tonsoribus — soprattutto relative al carteggio con la Segreteria di Stato per ricevere sussidi a beneficio degli internati — spiccano altri documenti di un certo rilievo che contribuiscono a smentire clamorosamente la vexata quaestio dei presunti silenzi di Pio XII in merito alla Shoah, ridefinendo meglio quel mosaico della carità che si è rivelata l’opera di tanti uomini e donne, laici e religiosi, che, a rischio della vita, non esitarono un solo istante a prodigarsi per soccorrere quanti fossero in seria difficoltà, senza badare alla loro fede religiosa o al loro “colore” politico. 

Difatti, fin dal 15 settembre 1940, monsignor Palatucci iniziò un frequente carteggio con la Segreteria di Stato, nella fattispecie con il cardinale segretario di Stato Luigi Maglione e, successivamente, con il sostituto monsignor Giovanni Battista Montini — carteggio che si protrarrà almeno fino al 1943. Poi, l’8 novembre 1940, ritenne più opportuno rivolgersi, con discrezione, direttamente al Papa per informarlo che si trovavano «a Campagna alcune centinaia di internati, e altri in qualche altro paese della mia Diocesi, e son per lo più di razza ebraica. Molti di essi o erano già poveri o, peggio, da gran signori son diventati grandi poveri, molti sono anche malati, e tutti ricorrono a me per aiuti. Io da parte mia faccio tutto quello che posso, fino a dare indumenti miei personali per soccorrere le necessità più urgenti; ma io son povero francescano vescovo di una povera Diocesi, e assolutamente non posso soccorrere tutti i poveri come pure vorrei (…) Già ebbi dalla Santità Vostra una somma di tremila lire in ottobre u.s., ma io finora ho già distribuito, dal mese di agosto ad oggi, più di seimila lire, e adesso non so come venire incontro a tante miserie che, con l’avanzante invernata, crescono di giorno in giorno. Prostrato, perciò, ai Vostri 

Piedi, Vi prego di farmi mandare un’altra elemosina, che mi permetto sperare più abbondante della prima». 

La risposta, da parte del Pontefice, com’è noto, non si era fatta attendere, tant’è che in varie tranche successive — oltre a quella del precedente 2 ottobre (a cui allude la lettera) — e quindi il 29 novembre del 1940, nonché il 1° maggio dell’anno successivo e il 22 maggio 1942 , Pio XII non restò indifferente alle pressanti richieste del vescovo di Campagna. E impartendo precise disposizioni al proprio sostituto presso la Segreteria di Stato, monsignor Montini, fece elargire ripetute sovvenzioni rispettivamente nell’ordine di 3.000, 10.000, 5.000 e di nuovo 3.000 lire. Oltre a tali sussidi, bisogna aggiungerne almeno un altro di 5.000 lire, forse meno citato; che risale al 31 agosto del 1941. 

Considerate le continue e pressanti richieste di aiuto provenienti dagli internati, infatti, le risorse economiche, già di per sé alquanto esigue, che monsignor Palatucci aveva a disposizione, incominciavano a scarseggiare al punto che egli non poteva più far fronte da solo alle esigenze più incalzanti che gli venivano presentate quasi quotidianamente. Pertanto, il 1° agosto del 1941, decise ancora una volta di interpellare il sostituto alla Segreteria di Stato, Montini, per metterlo al corrente della grave situazione esortandolo ad interporre i suoi buoni uffici con il Pontefice affinché, mosso a compassione, potesse elargire qualche altro provvidenziale aiuto economico. 

Nel volgere di qualche settimana, per la precisione il 31 agosto, con un’apposita missiva recante numero di protocollo 40.260, giunse puntuale la risposta favorevole del sostituto con allegato un altro assegno del Papa a beneficio degli internati. «Mi è gradito poter rimettere all’Eccellenza Vostra Rev.ma — scriveva Montini — la qui unita somma di Lit. 5.000, che il Santo Padre, accogliendo la Sua ultima domanda del 1° Agosto corr., destina a codesti internati. L’Augusto Pontefice vuole anche che 

Le giunga la Sua Apostolica Benedizione a sollievo e a incremento delle Sue pastorali fatiche». 

In questo periodo, infatti, Campagna divenne «casa accogliente» per numerosi ebrei, stranieri e perseguitati politici, che monsignor Palatucci beneficiò preoccupandosi di non farli sentire mai a disagio, prodigandosi con tutte le forze e gli esigui mezzi a sua disposizione, per la salvezza fisica e morale di tutti, senza discriminare alcuno per la sua fede religiosa o l’appartenenza politica. Anche da tale cospicuo carteggio si evince in modo chiaro come Pio XII, non solo fosse perfettamente al corrente della sofferenza degli ebrei, ma che in almeno cinque occasioni, intervenne di persona impartendo precise direttive al cardinale Maglione e a monsignor Montini affinché provvedessero a stanziare adeguati sussidi per contribuire ad alleviare le precarie condizioni nelle quali versavano. 

Per aiutare gli internati a essere trasferiti e a ricongiungersi con i propri familiari confinati in altri campi di concentramento, monsignor Palatucci talvolta ricorreva a un sottile quanto efficace stratagemma consistente nel procurare loro dei certificati attraverso medici compiacenti — come, ad esempio, il dottor Fiorentino Buccella responsabile del campo di Campagna — che richiedevano l’immediato trasferimento dell’internato di turno in una zona più salubre per poter guarire dalle precarie condizioni di salute nelle quali si trovava considerato il clima piuttosto rigido del luogo. I casi del dottor Radovan Svrljuga, di Samuele Kohn e di Israel Artur Krausz lo dimostrano chiaramente. 

Grazie a questo escamotage, nonché alla stima e alla tacita collaborazione delle autorità — come, ad esempio, l’inflessibile direttore dell’Ufficio internati della divisione degli Affari Generali e Riservati di Pubblica Sicurezza, Epifanio Pennetta, sul quale giocarono evidentemente le comuni origini irpine, oppure il comandante del corpo di Polizia di Campagna, il sottufficiale Mariano Acone — in più di una circostanza si riusciva a rendere più umano il soggiorno a questi internati oppure a ottenere il trasferimento in altri campi d’internamento, come nel caso dei due fratelli, Erich e Martin Bendheim, che scrissero a monsignor Palatucci nel maggio 1941 per essere trasferiti a Viterbo, del dottor Ladislao Münster, l’ebreo di Abbazia 

Bernardo Nathan, Gerardo Bohm, l’ebreo ungherese Eugenio Neumann, nonché quarantaquattro internati, tra cui figuravano ben 17 bambini, che chiedevano — grazie al provvidenziale intervento della Segreteria di Stato — il ricongiungimento familiare. 

Tra questi nominativi, inoltre, spicca anche quello del rabbino di Fiume, Davide Wachsberger che, grazie ai buoni uffici del vescovo di Campagna con il famigerato commendatore Epifanio Pennetta, riuscì a ottenere il tanto agognato trasferimento. Il figlio, Arminio Wachsberger, tratto in arresto a Roma durante la razzia del 16 ottobre 1943, fu uno dei 16 sopravvissuti dei 1.022 ebrei deportati ad Auschwitz, dove era stato perfino l’interprete di Mengele. Inoltre, tra queste centinaia di carte, risalta anche il cospicuo florilegio di lettere inviate da monsignor Palatucci alle varie organizzazioni assistenziali cattoliche come, ad esempio, il carteggio con il religioso pallottino Antonio Weber, referente romano della Raphaelsverein — l’organizzazione cattolica tedesca di aiuto agli emigranti — allo scopo di ottenere qualche visto per un Paese del Sud-America, come nel caso dell’ungherese Johann Giorgio Steiner, l’ingegner Wilhelm Feith, Enrico Kniebel, Alessandro Gottlieb e l’ingegner Walter Graetzer. 

Ma, evidentemente, l’opera del vescovo Palatucci non era vista di buon occhio da qualche zelante fascista del luogo considerato che, in una minuta del 1° ottobre 1942, il suo braccio destro, il canonico della cattedrale don Alberto Gibboni, lo aveva messo in guardia avvertendolo che, da una soffiata ricevuta dal commissario di Pubblica Sicurezza Carrozzo, la questura di Salerno aveva disposto un’indagine per accertare «se il Clero con a capo [il vescovo] aiuta[va] finanziariamente gli ebrei internati e se alcuni di essi [erano] stati uniti in matrimonio da [mons. Palatucci] o da altri sacerdoti, o anche battezzati». 

La risposta non si fece attendere, tant’è che a stretto giro di posta in quello stesso giorno, con tono piuttosto risentito, il vescovo così replicava: «Prima di tutto escludo assolutamente che io o altro sacerdote abbia unito ebrei in matrimonio. Alcuni sono stati battezzati da me, dopo averli fatti aspettare a lungo e dopo essermi accertato della loro sincera volontà, tanto è vero che non arrivano neppure a una 

decina su migliaia che sono stati a Campagna (…) non so se vi sono stati sacerdoti che abbiano aiutato moralmente gli internati che si son presentati a me, e per questo qualche volta sono stato personalmente al Ministero dell’Interno qualche volta che mi son trovato a Roma, e parimenti ho aiutato finanziariamente gli internati bisognosi, come nei limiti del possibile aiuto tutti i poveri che si presentano a me. E li ho aiutati senza distinzione, senza mai domandare se quelli che si presentavano a me fossero cattolici o ebrei o protestanti. Ho aiutato quelli che ho potuto, sia per carità cristiana, sia per fare opera di italianità, cioè di umanità gentile e romanamente generosa (…) E so che questa umanità l’hanno apprezzata. Escludo che sacerdoti abbiano spedito lettere degli internati per mezzo di missionari. Questo non è possibile neppure a me, poiché non avrei altro tramite che il Vaticano». 

Interessante appare anche il rapporto che legava il vescovo di Campagna col nipote Giovanni, che, come già detto, all’epoca ricopriva l’incarico di commissario di Pubblica Sicurezza a Fiume e, proprio avvalendosi di questa sua funzione, si adoperò attivamente nella salvezza di numerosi ebrei riuscendo a farli trasferire nella diocesi dello zio a Campagna, come si evince chiaramente in altre due lettere conservate tra le carte del vescovo Palatucci. 

Nella prima, in data del 28 luglio 1940, perorava la causa della signorina Maddalena Lipschitz che giungeva a Campagna «per visitare il padre [Eugenio], che è stato internato in campo di concentramento, per il solo motivo dell’appartenenza alla razza ebraica. Conosco molto bene la Signorina — sottolineava— e vi sarò molto grato di quanto vorrete fare per lei e il Padre». Nell’altra, invece, datata 21 dicembre 1940, scriveva: «Carissimo zio (…) Per quanto riguarda i miei protetti la situazione è la seguente: Ermolli Adalberto, ha presentato domanda di trasferimento in un Comune della Provincia di Perugia, Pesaro o Chieti. Questo che lo indirizza a Chieti in questo senso si è già interessato. Per lui sarà quindi il caso d’interessarsi solo se vi abbiate la possibilità d’intervenire ugualmente in modo efficace per gli altri. Diversamente, non è opportuno sciupare delle possibilità che potrebbero essere utilmente impiegate per questi. Vi ricordo i nomi: Braun in Eisler Dragica (Carolina) figlia, Eisler Maria nipote, Jurak Nada, Selan ing. Carlo e moglie, Eisner Lotta con 

due bambine. Essi puntano alle province di Perugia e Pesaro. A me interesserebbe una destinazione in tali province, perché quando che voi mi farete una raccomandazione per il Vescovo del luogo anche per essi che potrebbe segnalarli sia presso la Questura per una buona assegnazione [e] per una buona sistemazione (…) Per il momento occorre appoggiare nel più efficace dei modi la loro domanda, che verrà presentata fra qualche giorno. Io vi informerò tempestivamente e voi vorrete, poi, interessare qualcuno perché segnali la cosa nel migliore dei modi alla Questura. Ermolli ha già presentato ed io ho già scritto oggi, ma la lettera partirà fra qualche giorno. Per quanto riguarda lui, se voi avete la possibilità di interessare per la provincia di Perugia persona diversa da quella che interesserete per gli altri, fate pure diversamente evitiamo di danneggiare tutti nel desiderio di tutti aiutare. Vi ringrazio per l’assistenza che mi prestate per un’opera di bene». 

Il senso di gratitudine che manifestarono tutti gli ebrei internati a Campagna nei confronti di monsignor Palatucci per la sua encomiabile sollecitudine verso di loro che giunse a donare «quasi 70mila lire, senza dire quello che [diede] loro in vestiti, scarpe e generi alimentari», si può riassumere efficacemente nelle parole, intrise di commozione, contenute nella lettera che, il rabbino di Fiume Davide Wachsberger, gli scrisse il 9 marzo 1941. «Ogni occasione mi sarebbe sempre gratissima — affermava il rabbino — per manifestarvi i sentimenti di profondo rispetto per la Vostra persona illuminata e di illimitata gratitudine per tutto il Bene che avete prodigato ai miei compagni infelici ed a me, con cuore paterno e fraterno. Iddio, padre degli uomini, che tutto sa e tutto può, Vi manderà le sue benedizioni inestimabili per ricompensare l’immenso conforto che avete recato a me in particolar modo, onorandomi della Vostra amicizia e della Vostra buona parola». 

Così replicò il vescovo di Campagna: «quel poco che faccio lo fo con piacere e con tutto il cuore, da fratello, senza guardare a differenza di razza o di religione, secondo 

gli insegnamenti di Nostro Signore Gesù Cristo (…) con lo spirito della vera fratellanza universale, che a tutti mostra un solo Dio, un solo Padre e una sola Patria per tutti in Cielo».  

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