1. Breve storia su Campagna.
2. I due campi di concentramento.
3. L’arrivo degli internati.
4. Gli Ebrei a Campagna (prima parte).
5. Il Vescovo Palatucci, un esempio di umanità.
6.Gli Ebrei a Campagna (seconda parte).
7. La fuga.
8. Conclusioni.
9. Download.
di Gianluca Petroni.
1. Breve storia su Campagna.
Campagna, in provincia di Salerno, è ritenuto uno dei centri storici minori più interessanti del Meridione d’Italia. Nel corso dei secoli la sua storia si infittisce sempre più di nuovi avvenimenti. Diventa così una città piena di testimonianze storiche, tipiche del secolo d’oro del Regno di Napoli, ricca di palazzi nobiliari, fontane, conventi, chiese e monasteri. Valorizzata dall’ex Convento dei Cappuccini, simile ad una fortezza, con bella visione sui Monti Alburni e di una striscia di mare all’orizzonte, con alle spalle un tratto dei Picentini, ed inoltrata nella gola del fiume Tenza, Campagna è dominata, dall’alto di un colle, dal misterioso Castello di Gerione. Di origine imprecisata, fu municipio romano al tempo di Silla. Centro attivo ed operoso già dal 1050, ricco di creterie, ogliare, cartiere, di pastifici e di mulini ad acqua. Nel 1431 è Conte di Campagna Francesco Orsini di Gravina. Nel 1518 il Papa Leone X concesse a Campagna di fregiarsi del titolo di Città. Clemente VII, col Breve Apostolico "Pro Excellenti", il 13 luglio 1525, elevò Campagna a sede vescovile, unendola "aeque principaliter" all’antica Diocesi di Satriano. Il 23 luglio 1532, sotto Carlo V, a Ratisbona, il feudo di Campagna venne concesso col titolo di Marchesato ad Onorato Grimaldi di Monaco. Nel XVI secolo Campagna raggiunse il massimo splendore sia per le arti che per il commercio. Un esempio per tutti: nel 1545 diventa "Città dell’arte impressoria"; fu tra i primi centri ad essere dotata di una tipografia, di cui restano rarissimi volumi, quando solo da qualche decennio Aldo Manunzio aveva dato al mondo, in Venezia, il primo libro stampato. Nel 1642, in seguito alla guerra tra Francia e Spagna, i Grimaldi perdono il feudo. Campagna diventa Principato con i Caracciolo. Nel 1693 la Città ottiene il titolo di Ducato con i Pironti, che resteranno a Campagna fino alle leggi sull’eversione dei feudi. Nel 1808, sotto il regno di Gioacchino Murat, diventa capoluogo del Circondario del Principato Citeriore. Reperti e monumenti di questi periodi sono ancora oggi riconoscibili, malgrado il sisma del 23 novembre 1980, inoltrandosi tra le stradine del centro storico e del centro antico. Tra il 1571 e il 1572 si vuole che nel Convento dei Frati Domenicani di San Bartolomeo - che poi sarà proprio uno dei due edifici adibiti a campo di concentramento per gli ebrei in seguito alle leggi razziali fasciste - avesse soggiornato l’eretico monaco nolano Giordano Bruno, perfezionando così le sue tesi filosofiche, compiendo il noviziato e addirittura forse celebrando la sua prima messa nell’attigua chiesa denominata del Santissimo Nome di Dio. È importante inoltre rilevare che Campagna è stata sede di Sottointendenza e di Sottoprefettura e, fino al sisma del 1980, sede di Distretto Militare.
È opportuno ora, dopo questa breve parentesi storica su Campagna, addentrarci in quel piccolissimo pezzo di storia che inspiegabilmente ancora oggi è tenuto in scarsa considerazione dalla storiografia ufficiale, e addirittura ignorato da gran parte della popolazione campagnese, e cioè: "gli ebrei a Campagna durante il secondo conflitto mondiale".
2. I due campi di concentramento.
Le misure di internamento cui l’Italia fece ricorso al momento dell’entrata in guerra ricalcavano il modello del confino politico, già sperimentato contro gli oppositori del fascismo.
Anche per l’internamento di italiani e stranieri durante la guerra, infatti, fu fatta distinzione tra la forma più severa, vale a dire l’internamento in "campi di concentramento", come ufficialmente erano denominati, e quella più blanda del soggiorno obbligato in un comune, cioè del cosiddetto "internamento libero". In pratica però la distinzione non era affatto così netta come potrebbe sembrare a prima vista. L’internamento in un campo spesso si distingueva da quello nei comuni solo per il numero più elevato di persone che venivano riunite in un edificio o in un insieme di edifici; i "campi di concentramento" erano situati esclusivamente sulla terra ferma.
Durante la fase preparatoria il Ministero dell’interno prese in esame soprattutto la possibilità di istituire "campi di concentramento" in edifici abbandonati o scarsamente utilizzati. Vennero incaricati di reperire le opportune sistemazioni alcuni ispettori generali, tra cui il più noto è certamente Guido Lospinoso, che nella scelta avrebbero dovuto osservare i seguenti criteri: gli edifici non dovevano trovarsi in zone di sicurezza militare, dunque non dovevano essere vicini alla costa, ai porti, a importanti strade o linee ferroviarie, ad aeroporti o a fabbriche di armamenti; non dovevano presentare problemi di stabilità, avere un numero sufficiente di vani per poter accogliere una quantità abbastanza consistente di internati e di addetti alla sorveglianza, essere abitabili senza costosi lavori di restauro e di ristrutturazione e, se possibile, essere forniti di acqua potabile, proveniente dalle condutture o da un pozzo, di corrente elettrica e di un allacciamento telefonico. Bisognava tener conto anche delle esigenze di custodia. Erano quindi da preferire edifici isolati, facilmente controllabili, con un pezzo di terreno intorno, che fosse circondato da un muro e dove pertanto gli internati potessero passeggiare sotto sorveglianza. I campi non dovevano essere troppo distanti da un centro abitato in cui vi fossero una stazione dei carabinieri, un medico e un negozio di alimentari, e la strada di accesso doveva essere praticabile con qualsiasi tempo.
In base ai rapporti inviati dagli ispettori generali, in cui venivano descritti nei dettagli le località e gli edifici visitati, valutandone anche la capienza, il Ministero dell’interno effettuò una prima selezione. Fu poi chiesto alle prefetture di far esaminare gli edifici prescelti da propri funzionari, e in molti casi si dovette constatare che la realtà era assai meno rosea di quanto fosse stata dipinta dagli ispettori generali. Una volta ottenuto il consenso definitivo del Ministero dell’interno, le prefetture stipularono i contratti di affitto, fecero eseguire i lavori di restauro e le modifiche più urgenti e provvidero a far disinfestare i locali e ad arredarli con mobili provenienti il più delle volte dai magazzini dell’esercito.
Campagna era una cittadina di 11300 abitanti e dal punto di vista della sicurezza militare offriva condizioni ideali per l’internamento, essendo circondata da monti e da colline che limitavano la visuale. Lungo gli argini di un torrente, vicoli angusti e tortuosi si inerpicavano tra case che sembravano accatastate una sull’altra. Quando gli internati fecero conoscenza con la città rimasero inorriditi di fronte alla sporcizia e alla "arretratezza indicibile". Racconta il medico Dawid Schwarz, riandando con la memoria a quell’esperienza, che "spesso sulla pubblica via" si vedevano "donne sedute davanti alla soglia di casa che tenevano un bimbo inginocchiato davanti a loro col capo appoggiato in grembo e tranquillamente lo spidocchiavano".
Tra i campi istituiti nel giugno del 1940 in edifici già esistenti e destinati ad accogliere gli ebrei stranieri, il più grande era quello di Campagna; nei primi mesi dopo che era entrato in funzione ospitava già 430 uomini catturati in diversi parti d’Italia, tra cui anche alcuni inglesi e francesi e un gruppo di 40 ebrei italiani. Questi ultimi vennero però trasferiti tutti in altri campi dopo poche settimane. Nel novembre 1940 il numero degli ebrei stranieri era sceso a 230, nel febbraio 1941 a 170, per raggiungere il livello più basso nell’aprile 1942, con 112 persone. Nel novembre il loro numero era risalito a 170, e negli ultimi mesi prima della liberazione da parte degli alleati, avvenuta nel settembre 1943, si aggirava sui 150. I due terzi circa provenivano dalla Germania e dall’Austria, gli altri erano prevalentemente polacchi, cechi o ebrei di Fiume divenuti apolidi.
Con un telegramma datato 8 settembre 1939 l’allora Prefetto Bianchi, pur facendo presente al Ministero dell’Interno che esistevano diverse località idonee alla costituzione di colonie per confinati comuni nella provincia di Salerno, propose Campagna come sede ottimale visto che il comune aveva la disponibilità di "due caserme vuote attrezzabili per circa 900 posti". Quattro giorni dopo, il Prefetto fece seguire una lettera in cui comunicava l’invio sul posto del Vice Questore Pastore, il quale aveva constatato che nel comune di Campagna erano disponibili due caserme, "Concezione" e "S. Bartolomeo", entrambe di proprietà del comune: "La prima è accessibile con veicoli, è ariosa, in discreto stato di manutenzione, con tre grandi camerate ed una ventina di stanzette ed offre una capacità di circa 400 posti. Ha, però, un’ala pericolante. La caserma S. Bartolomeo consta di due piani, oltre i locali terranei. Vi sono cinque cameroni grandi, quattro piccoli, quattro stanze grandi e tre piccole, quattro grandi corridoi, cucine, dispense, magazzini. Vi è acqua e luce elettrica, ed è possibile alloggiare circa 450 persone. Qualche locale è alquanto umido. Non è però accessibile con veicoli, essendovi circa trecento metri di strada selciata, in salita. Entrambe le caserme sono alle due estremità del centro abitato di Campagna e quindi in località appartate, dove è anche facile la vigilanza".
È chiaro dunque che, sia l’elevata capienza dei due edifici sia la sicurezza militare, condizionarono enormemente le autorità competenti nella scelta di Campagna come luogo ideale della provincia di Salerno dove istituire un campo di concentramento.
Anche l’Ispettore Generale di P. S. Guido Lo Spinoso, in una relazione del 1 febbraio 1940 al capo della Polizia Bocchini, esprimeva parere favorevole all’istituzione dei due campi, ritenendoli idonei ad ospitare circa 750 persone, di cui 350 in quello di S. Bartolomeo e 400 in quello della Concezione.
Il campo di S. Bartolomeo e quello dell’Immacolata Concezione erano in effetti due ex conventi, di proprietà del comune, utilizzati nel mese di settembre di ogni anno, come caserme per gli allievi ufficiali del R. Esercito, per le esercitazioni pratiche di campo che essi facevano alla fine del loro corso teorico.
L’unico tentativo, per evitare la costituzione dei due campi, fu fatto dal Senatore del Regno Roberto De Vito il quale, in una missiva del 23 aprile indirizzata all’amico Bocchini, faceva presente di aver scelto proprio i due fabbricati come sede per i figli dei postelegrafonici. Sottolineando che l’indisponibilità dei due locali avrebbe sconvolto il piano organizzato per lo sfollamento in caso di emergenza, chiedeva dunque di esaminare la possibilità di lasciarli liberi. Il 29 seguente però, Bocchini gli rispose: "nonostante la migliore buona volontà, non è possibile rinunciare ai due edifici esistenti nel comune di Campagna, dovendo detti locali essere adibiti, in caso d’emergenza, a campi di concentramento per internati.
Nel giro di un mese infatti le autorità si adoperarono freneticamente affinché la sistemazione dei campi a Campagna - e non solo - fosse attuata nel più breve tempo possibile; con un telegramma del 27 maggio al capo della Polizia, Lo Spinoso rese noto che i due locali erano ormai a disposizione della Prefettura e che erano necessari alcuni lavori di ordinaria amministrazione:
"Tali lavori riguardano soprattutto ritocchi ai tetti a infissi e pulizia disinfezione generale dei locali".
Il 28 poi, informò il capo della Polizia dell’inizio dei lavori urgenti, precisando che per fine settimana i locali sarebbero stati pronti a ricevere il casermaggio e - per i primi giorni della settimana entrante - anche i confinati politici provenienti da Lampedusa; in seguito si sarebbe poi provveduto ad ultimare i lavori senza recare alcun danno alle persone.
Come previsto dal rapporto di Lo Spinoso, il 6 giugno 1940 il Prefetto Bianchi comunicò al Ministero dell’Interno che i lavori erano stati ultimati e che i locali erano pertanto disponibili.
L’8 giugno erano già dislocati a Campagna - per svolgere il servizio di vigilanza – 12 carabinieri, di cui due sottufficiali, e 15 agenti di Pubblica Sicurezza, compreso un sottufficiale ed escluso il funzionario che non era ancora giunto da Lampedusa.
L’ultimo resoconto - prima dell’invio degli internati - riguardo alla stato dei due locali, fu quello fatto dall’Ispettore generale di Pubblica Sicurezza Antonio Panariello il 14 giugno. Nella caserma, di S. Bartolomeo, oltre all’installazione del corpo di guardia con alloggio per un graduato e sei carabinieri, vi erano: "al pian terreno, cucina, sala per refettorio e per deposito di casermaggio; al primo piano, vari dormitori con latrine, capaci di contenere 200 persone; al secondo piano, altri dormitori con latrine, capaci di circa 200 persone". Nella caserma dell’Immacolata Concezione invece, oltre al corpo di guardia con alloggio per un graduato e sei carabinieri", esistevano: al pian terreno, un camerone capace di contenere 50 persone; al primo piano vari dormitori che possono contenere 250 persone; sia al pian terreno che al primo esistono le relative latrine". Il rapporto continuava affermando che le due caserme erano quindi capaci di "contenere comodamente 700 persone" e "in caso di bisogno" anche 750. Gli internati dovevano lavarsi nei cortili dei due campi ove affluiva l’acqua corrente; Panariello però comunicò al Ministero dell’Interno di aver fatto presente ad un ingegnere del Genio Civile - recatosi a Campagna il 10 giugno - "l’opportunità di impiantare l’acqua corrente anche nelle latrine annesse ai dormitori". Punto importante del resoconto fu quello di stabilire la data del 16 giugno come idonea ad usufruire dei due campi di concentramento per l’invio degli internati. A cura del Podestà di Campagna, furono inoltre trovate già "varie persone" che avrebbero potuto occuparsi "delle mense delle persone internate, fornendo anche le stoviglie". L’Ispettore evidenziò infine la possibilità di utilizzare "varie camere ammobiliate" potendo così dare alloggio ad altre 50 persone circa, garantendo dunque per Campagna una capacità di internamento complessiva di 800 persone. A questo punto ormai tutto era pronto e come previsto dai vari rapporti fatti al Ministero dell’Interno, il 16 giugno 1940 arrivarono a Campagna i primi internati.
3. L’arrivo degli internati.
Come previsto, dunque, il 16 giugno 1940 arrivarono a Campagna i primi trenta internati di cui, 22 italiani e 8 stranieri. Furono tutti sistemati nella caserma dell’Immacolata Concezione e soltanto uno di essi si trovava "in misere condizioni economiche", ragion per cui, fu subito impiegato nella cucina per aiutare la preparazione della mensa. Sul posto arrivò anche il funzionario di Pubblica Sicurezza, dott. Eugenio De Paoli, che avrebbe assunto la direzione dei due campi di concentramento. Coadiuvato inizialmente da 14 agenti di P. S. e da quattro carabinieri, che sarebbero stati poi aumentati proporzionalmente al numero degli internati, aveva già provveduto ad impiantare i registri ed i fascicoli personali e a delineare la zona entro cui gli internati potessero liberamente circolare. Il giorno dopo l’invio degli internati, Panariello comunicò al Ministero degli Interni di aver sollecitato il Prefetto di Salerno affinché si impiantasse l’acqua corrente anche nelle latrine esistenti ai piani superiori delle due caserme, ritenendolo "assolutamente necessario per ragioni igieniche"; allo stesso modo pregò il Ministero di accontentare il dott. De Paoli il quale, per svolgere al meglio il suo incarico, aveva richiesto 4 agenti di sua piena fiducia, e cioè: Eclisse Pietro, Gismondi Antonio, Colapinto Giuseppe e Castiglione Domenico.
Nei giorni successivi altri ebrei continuarono ad arrivare regolarmente; riguardo a quelli destinati alla caserma di S. Bartolomeo, anche se non si è potuto risalire alla data precisa del loro arrivo, è stato quantomeno possibile averne una precisa descrizione grazie al sig. Antonino Palladino.
A quei tempi egli lavorava come operaio presso la ditta incaricata dei lavori di ristrutturazione della caserma di S. Bartolomeo. "Ricordo bene il giorno in cui il capo operaio mi disse - senza capire il perché - di lasciare il lavoro al campo e di raggiungere largo S. Antonio per poi correre ad avvisarlo non appena sarebbero arrivati gli ebrei. Quando questi arrivarono però, inorridito dalla scena, dimenticai completamente le direttive ricevute e rimasi sul posto: giunti con due camion militari, furono subito immobilizzati per mezzo di una lunghissima ed unica catena e condotti poi, in fila indiana, verso il campo di S. Bartolomeo". Il sig. Palladino, all’epoca poco più che diciottenne, ignorava completamente, sia le antiche vicissitudini del popolo ebraico sia quelle determinate dalle leggi razziali fasciste. Mosso dunque da morbosa curiosità, e approfittando del lungo tratto percorso dagli ebrei per arrivare al campo, si avvicinò a due di loro - i quali potevano avere pressappoco la sua età - e con le lacrime agli occhi gli chiese: "che cosa avete fatto per essere trattati in questo modo?". Rispose uno di loro: "nulla, siamo studenti universitari e siamo italiani come tutti gli altri". La maggior parte di loro erano italiani, ricorda il sig. Palladino; essi infatti, facevano parte di quei 40 ebrei italiani che, come abbiamo già precisato, sarebbero poi stati trasferiti, dopo poche settimane, presso altri campi. Una volta arrivati al campo di S. Bartolomeo, "gli internati furono subito inquadrati nel chiostro dell’edificio e liberati dalle catene; successivamente poi, prima di essere inviati ai piani superiori adibiti a dormitorio, fu ad ognuno di loro assegnata una branda e altro materiale di casermaggio". Il sig. Palladino continuò, per alcuni giorni, a lavorare nel campo e poté quindi osservare più da vicino le condizioni di vita degli internati: "non essendoci ancora un gran numero di ebrei, fino al giorno in cui ho lavorato presso il campo, posso dire con certezza che essi conducevano una vita senz’altro dignitosa".
Il prossimo paragrafo infatti, verterà proprio sulle vicissitudini degli ebrei durante il loro periodo di internamento a Campagna.
4. Gli Ebrei a Campagna (prima parte).
Considerando l’atroce destino a cui sono andati incontro i 6 milioni di ebrei trucidati nei campi di concentramento tedeschi, oggi si può senz’altro affermare che l’esperienza degli ebrei a Campagna ha impresso nella memoria di tutti noi una bella pagina di storia, caratterizzata da una indiscutibile e umana solidarietà non solo della popolazione campagnese, ma anche da parte delle autorità civili e religiose che mai hanno perso di vista il valore e quindi il rispetto dell’altrui dignità.
Come già detto in precedenza, i due campi si trovavano uno all’entrata e uno all’uscita del paese ed erano assai facili da sorvegliare. Il terreno su cui sorgevano non era tuttavia abbastanza esteso da garantire lo spazio minimo per muoversi stabilito nella Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, per cui si dovette permettere agli internati di uscire in paese per passeggiare. Gli internati però potevano circolare liberamente solo nell’ambito delle zone consentite: esse erano delimitate da strisce di pittura bianca sul manto stradale e da tabelle di legno all’uscita del paese, le quali non potevano essere oltrepassate se non con un permesso speciale concesso dalla direzione del campo.
Come vedremo in seguito, grazie alla compiacenza delle forze dell’ordine, che spesso chiudevano un occhio, gli internati più volte oltrepassarono tali limiti, senza tuttavia arrecare alcun danno a cose o persone. La sorveglianza era affidata a 12 carabinieri e a 14 agenti di polizia messi a disposizione dalla questura di Salerno. L’ufficio del direttore (il primo fu il commissario di polizia Eugenio De Paoli) si trovava a metà strada tra i due conventi, in una casa al centro del paese - sede di episcopio, prima e dopo la seconda guerra mondiale - da dove per raggiungere il convento di S. Bartolomeo bisognava percorrere prima un breve tratto di strada e poi una ripida scalinata.
"Campagna fu un paese antifascista"; questa affermazione fatta dal sig. Palladino è senza ombra di dubbio lo specchio di quello che i campagnesi pensavano all’epoca delle leggi razziali fasciste. "Almeno la maggiorparte di loro infatti si strinse attorno agli ebrei cercando in tutti i modi di non farli sentire mai diversi dagli altri".
Emblematico, a questo riguardo, è il caso del medico polacco David Schwarz, internato a Campagna il 10 luglio 1940, più volte interpellato dai cittadini campagnesi per avere le sue cure. Egli abitava a Pavia, quando pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, fu arrestato e tradotto in carcere. Dopo aver trascorso i primi giorni in compagnia dei detenuti comuni, insieme agli altri confinati politici chiese ed ottenne di essere rinchiusi in celle per soli confinati, "per avere almeno il conforto della presenza uno dell’altro".
Il 9 luglio gli fu comunicato che sarebbe stato destinato a Campagna, insieme all’amico Mosè Rosenzweig, anch’egli medico. Ammanettati e scortati da due carabinieri come detenuti qualsiasi, i due medici giunsero alla stazione dove accadde un episodio che è la dimostrazione pratica di come moltissimi italiani erano allora decisamente contrari alle misure repressive nei confronti degli ebrei; il dott. Schwarz, nella sua testimonianza, lo ricorda con estrema riconoscenza: "il personale della stazione, ed in particolare il capostazione a nome di tutti, si risentì vivacemente con i carabinieri di scorta perché due medici, certamente amici dell’Italia dato che avevamo scelto questo paese per venire a seguirvi l’università, colpevoli solo di appartenere ad un paese con il quale l’Italia aveva rotto i rapporti, venivano tenuti con le manette ai polsi. La sfuriata del capostazione ottenne i suoi effetti e fummo liberati dalle manette e accettati come prigionieri sulla parola".
Una volta giunto a Campagna, come già detto, egli rimase inorridito dall’arretratezza esistente nel paese. La professione medica era naturalmente vietata, ricorda Schwarz, "ma noi medici eravamo in una situazione speciale, perché la povertà dei cittadini, il forte numero dei malati, la scarsità dei medici italiani, la maggiorparte dei quali era richiamata nell’esercito, ci inducevano a non tener conto del divieto. Le stesse autorità fingevano di non vedere e di non sapere, almeno finché non c’era una denuncia ufficiale". Essendoci comunque una scarsità impressionante di medicinali e di igiene, il dott. Schwarz esercitò la professione in maniera del tutto primitiva.
Malgrado tutto questo però, la sua professionalità non fu mai messa in discussione dai cittadini di Campagna. Emblematica è, in tal senso, la richiesta fatta dal sig. Michelangelo Urgo alla Questura di Salerno il 31 gennaio 1941; il sig. Urgo, da quasi cinque anni ormai, aveva il figlio Antonino che soffriva di forti dolori addominali causati da un’ulcera gastrica. Non avendo riscontrato, in tutti quegli anni, nessun miglioramento con le cure effettuate da diversi medici, e precisando che il dott. Schwarz essendo specializzato in gastroenterologia aveva invece, con poche sedute, ottenuto già dei buoni risultati, chiese l’autorizzazione affinché quest’ultimo potesse curare suo figlio. Proprio in considerazione del "sensibile miglioramento del malato", la Prefettura di Salerno, in via "eccezionale", espresse parere favorevole a tale autorizzazione chiedendo al Ministero dell’Interno disposizioni a riguardo. Quest’ultimo però, pochi giorni dopo, comunicò al prefetto di non poter rilasciare tale autorizzazione. Non si hanno notizie riguardo al fatto se il medico polacco, nonostante il divieto impostogli, continuò o meno a curare il figlio del sig. Urgo. Considerando però la compiacenza delle forze dell’ordine e soprattutto la denuncia che in seguito piovve sulla testa del dott. Schwarz, si può senz’altro propendere per una risposta affermativa.
Nei suoi mesi di permanenza a Campagna ebbe anche - in gran segreto - la visita della sua fidanzata; quest’ultima, grazie alla solidarietà e all’aiuto del vetturino che l’accompagnò dalla vicina stazione ferroviaria di Eboli, per non incorrere in alcun pericolo all’ingresso del paese, si fece passare per un’amica di un certa donna Filomena, amica del vetturino e proprietaria di una trattoria. Il destino volle che proprio donna Filomena fosse la nonna di Peppiniello, un bimbo molto malato in cura da un po’ di tempo presso il dott. Schwarz. La trattora non solo fece di tutto per avvisare il medico, ma ospitò, presso l’umile casa di suo figlio, la sua fidanzata, la quale visse a Campagna per dieci giorni senza mai uscire dalla sua camera. In quei giorni inoltre, il polacco aveva appena saputo della morte di sua madre e la presenza della sua Iride, lenì almeno in parte il suo "acerbo dolore".
L’8 dicembre 1940 arrivò, come anticipato, la prima denuncia da parte del segretario del locale Fascio, il quale rendeva noto alla direzione del campo di concentramento, che "alcuni medici internati esercitavano abusivamente l’arte sanitaria" e particolarmente gli internati Zezmer Bruno e Witcowski Kurt. Il direttore De Paoli, che aveva già provveduto a diffidare i due medici per ben due volte da qualsiasi attività medica, convocò, l’11 novembre, tutti gli internati medici raccomandandogli ancora una volta di non prestare, senza preventiva autorizzazione, alcun tipo di cure. Il direttore però, comunicò al Prefetto Bianchi che, nonostante il divieto, i medici internati continuarono saltuariamente a prestare abusivamente la loro opera, in particolar modo gli internati Zezmer Bruno, Schwarz David, Klein Isacco e Rawitz Kurt; in considerazione di tutto ciò, egli li privò della libera uscita per tre giorni, e ne propose il trasferimento da Campagna, verso altri campi di concentramento lontani dal centro abitato.
Nel frattempo, il medico provinciale diede il suo nullaosta affinché l’internato Orbach Ernesto - di nazionalità tedesca e di professione dentista - aprisse un gabinetto dentistico a Campagna, "ad uso dei soli internati ebrei". Non essendo ancora laureato però, egli chiese di farsi assistere nell’esercizio della professione odontoiatrica, dal dott. David Schwarz, trovandosi quest’ultimo in possesso dei requisiti richiesti. Il 9 marzo 1941, il Prefetto chiese al Ministero dell’Interno di autorizzare il medico polacco a permanere nel campo di concentramento di Campagna. Il 28 marzo comunque, tenuto conto che tra Orbach e Schwarz sorsero discordie circa l’impianto del gabinetto dentistico, e considerando che quest’ultimo continuò lo stesso ad esercitare la professione di medico chirurgo visitando "saltuariamente ammalati tra la popolazione campagnese", fu trasferito al campo di Ferramonti Tarsia in provincia di Cosenza. Circa l‘istituzione del gabinetto dentistico, il direttore del campo propose la possibilità per Orbach di operare sotto l’egida del dott. Fiorentino Buccella, medico del campo fin dal 26 agosto 1940.
Ritornando a Schwarz, grazie alle sue conoscenze, ottenne - dopo Ferramonti - il trasferimento prima a Pietralunga, un piccolo paese dell’Umbria, e poi in una località del nord da lui stesso scelta e cioè Palazzolo sull’Oglio in Provincia di Brescia; il 10 settembre 1943, ottenuta la cittadinanza Italiana, arrivò a Legnano e pochi giorni dopo riuscì a passare il confine a Maccagno verso la Svizzera, salvando così - a differenza della sua famiglia trucidata dai nazisti - la propria vita.
Anche il sig. Antonino Palladino, proprio a testimonianza del fatto che i cittadini di Campagna nulla avevano contro gli ebrei ivi internati, strinse amicizia con uno di loro, il musicista tedesco Michele Seidmann. Egli giunse a Campagna circa due mesi dopo l’apertura dei campi, mentre sua moglie fu invece destinata al campo di Ferramonti Tarsia. Suonatore di violino egli si esibì anche nella cattedrale di Campagna in Occasione della Santa Pasqua del 1941.
"Ricordo con piacere le lunghe chiacchierate fatte con Seidmann, il quale molto spesso si lamentava dello scempio che gli italiani stavano compiendo in Austria abbattendo migliaia e migliaia di abeti, compresi quelli di sua proprietà". Anche se non è stato possibile accertarne la veridicità, Palladino ricorda inoltre che a Campagna fu internato l’allora proprietario della Mercedes, il quale però non alloggiava al campo, ma in un albergo situato sopra la caserma dei carabinieri: "ricordo bene quell’uomo: elegante, cortese e molto buono"; molte erano infatti le occasioni in cui egli mandava il sig. Antonino, e il suo amico, figlio del proprietario dell’albergo, a comprare le sigarette lasciandogli sempre generosissime mance. C’è stato anche chi ha cercato di arricchirsi tra la popolazione campagnese alle spalle degli ebrei; Palladino infatti ricorda benissimo un certo Ceriello Raffaele, il quale, essendo parente del Podestà di Campagna e quindi grazie alla sua compiacenza, fungeva da corriere tra alcuni ebrei di Campagna e le loro donne internate a Ferramonti Tarsia, chiedendo in cambio sempre e solo oro.
Anche la famiglia Palladino ospitò nella propria casa un ebreo cecoslovacco, di cui però il sig. Antonino ricorda a stento il nome, forse Bernardino, anche perché poi - a causa della sua chiamata al servizio militare e poi alle armi - lasciò per un certo periodo Campagna. L’ebreo aveva preso in affitto soltanto una stanza della loro casa, e, molto spesso confidava al sig. Antonino, con voce tremante, di avere una forte paura di finire in mano ai tedeschi.
Tutto questo dunque testimonia senz’altro la felice integrazione degli internati tra la gente di Campagna, che fece di tutto per alleviare le pene inflitte dalle leggi razziali fasciste agli ebrei di S. Bartolomeo e della Concezione. L’integrazione fu cosi profonda da arrivare addirittura a generare alcune relazioni sentimentali tra gli ebrei e alcune donne di Campagna, tangibili ancora oggi nell’esistenza di alcuni cittadini campagnesi, frutto diquelle segrete e pericolose relazioni.
Il sig. Palladino, ancora oggi, custodisce gelosamente tre candelabri ebraici, regalati alla sua famiglia, come segno di eterna gratitudine, da un rabbino, amico dell’ebreo cecoslovacco ospitato dai suoi genitori.
Ritornando più da vicino alla vita nel campo di concentramento di Campagna, bisogna dire che il direttore De Paoli fin dall’inizio si adoperò subito per garantire agli internati una completa assistenza medica; egli prospettò, infatti, alla Prefettura di Salerno, "l’urgente necessità di istituire un’infermeria con annesso ambulatorio" per uso esclusivo degli internati, vista la già precaria condizione di salute di alcuni di loro. Il Prefetto - in data 5 e 9 luglio 1940 - comunicò al Ministero tale necessità, accludendo anche la relazione del medico provinciale, il quale riteneva "indispensabile" l’istituzione di un ambulatorio.
Il 9 luglio del 1940, l’Ispettore Generale Panariello, fece al Ministero dell’Interno una relazione dettagliata circa la situazione nei campi di concentramento di Campagna. A quella data erano stati inviati 369 internati: 153 nella caserma Concezione, 189 in quella di S. Bartolomeo e 27 nelle camere ammobiliate. L’Ispettore, inoltre, fece notare che la preventivata capienza di 700 persone, era stata fatta prima che il materiale di casermaggio giungesse ai campi; una volta sistematolo infatti, ci si rese conto che non era più possibile contenere quel numero di persone. Anche il medico provinciale non poté dare il nullaosta per ospitare un numero maggiore di internati, potendo questo dare luogo a malattie infettive. Oltretutto, volendo quest’ultimo istituire in ciascuna caserma - oltre all’ambulatorio - anche un locale di isolamento, e considerando ancora la sua richiesta di ampliare e aumentare il numero delle latrine con in più la costruzione di dieci docce e di qualche vasca da bagno, la capacità dei locali sarebbe stata così chiaramente ridotta. In considerazione di tutto ciò, secondo Panariello, "comprendendo anche i 50 posti delle camere ammobiliate", nelle due caserme potevano essere alloggiate "al massimo 500 persone". L’ispettore invitò quindi il Ministero a non inviare altri internati a Campagna, anche perché le latrine non erano state ancora provviste di acqua corrente a causa di una rottura alle condutture dell’acqua del comune di Campagna, per la cui riparazione, erano necessari 200 quintali di cemento armato. Nel frattempo, per ovviare a tale inconveniente, furono piazzate vicino alle latrine alcune botti piene d’acqua, mentre apposito personale di servizio, avrebbe provveduto continuamente al lavaggio e alla disinfezione delle latrine stesse.
Il 13 luglio comunque, relativamente all’istituzione della camera d’isolamento, all’ampliamento delle latrine e anche alla costruzione delle dieci docce e di qualche vasca da bagno, il Ministero dell’Interno diede l’autorizzazione, precisando però che la spesa necessaria per i lavori non superasse le 40.000 lire.
A parte questi problemi di carattere strutturale dei campi, gli internati destinati a Campagna non ebbero grossi problemi; "le autorità preposte all’internamento si limitavano, a scopo di dissuasione, a punire solo le violazioni più clamorose", e la popolazione, come già detto, non era per niente ostile nei lo confronti. Anzi, data la generale scarsità di beni di vitale importanza, la tentazione di effettuare scambi vantaggiosi per entrambe le parti era naturalmente assai grande. Proprio a Campagna, nei primi mesi, vale a dire fin quando fu direttore De Paoli, pare che vi fosse un commercio assai vivace. Walter Berent ha affermato che gli abitanti della cittadina campagnese potevano dirsi soddisfatti degli internati: "Con loro potevano guadagnare quanto non avevano mai guadagnato in vita loro" .
Gli internati bisognosi comunque, ricevevano dallo Stato, per il loro mantenimento, un sussidio giornaliero. Il pagamento avveniva tre volte al mese, all’inizio di ogni decade. Chi, secondo criteri spesso assai discutibili, non era classificato dalla questura come "privo di mezzi", doveva depositare i suoi risparmi su un libretto bancario o postale, da dove poteva prelevare di volta in volta il necessario, con l’autorizzazione dell’amministrazione del campo e del Podestà. Il sussidio giornaliero era inizialmente di 6,50 lire per gli uomini e le donne privi di famiglia internati nei campi e nei comuni. Quando il nucleo familiare era internato insieme - non si conoscono casi simili a Campagna - alla moglie spettavano solo 1,10 lire e a ciascun figlio 0,55 lire. A seguito della crescita dell’inflazione, il sussidio subì quattro aumenti; nel luglio 1943, l’importo era ormai di 9 lire per le persone sole, e di 5 e 4 lire rispettivamente per le donne e i bambini internati insieme al capofamiglia.
Per gli internati il legame più importante con il mondo esterno, era dato dalla posta. "Le lettere non potevano superare le ventiquattro righe, i pacchi dovevano avere un peso non superiore ai cinque chili e non era possibile inviare somme di denaro eccedenti un certo importo"; la corrispondenza era sottoposta a censura, e i pacchi venivano aperti e controllati. "Bastarono poche settimane perché ci si rendesse conto che né le amministrazioni dei campi né i Podestà erano in grado di far fronte alla massa di lettere, scritte per di più in tante lingue diverse. Il Ministero dell’Interno permisi quindi l’uso, oltre che dell’italiano, solo del tedesco, dell’inglese e del francese. Col tempo poi, si affermò la prassi per cui tutta la corrispondenza in italiano veniva sottoposta a censura direttamente nei campi, mentre quella in altre lingue veniva inviata alle commissioni provinciali di censura presso le questure; la posta destinata all’estero doveva passare inoltre per un ufficio centrale di censura a Roma. Due soprattutto erano le limitazioni, dovute tra l’altro al timore ossessivo dello spionaggio, cui bisognava attenersi nella corrispondenza: non erano permesse descrizioni dei luoghi e, in conseguenza del divieto di attività politica, non erano consentiti giudizi politici negativi; bisognava evitare anche di criticare le condizioni di vita".
Un divieto che gli internati dovevano assolutamente rispettare era quello di non fare politica. Se il direttore del campo o il questore venivano a conoscenza di critiche al fascismo o anche solo al nazismo, si rischiava l’arresto e la deportazione in un campo per prigionieri politici su qualche isoletta dell’Italia meridionale. Ogni critica a Mussolini poteva essere considerata "offesa all’onore del Capo del governo" e perseguita penalmente.
Ritornando ai problemi strutturali dei campi, un fatto nuovo si verificò nel luglio 1940. Il giorno 24 infatti, il direttore De Paoli telegrafò al Prefetto D’Andrea avvisandolo che, in seguito a una sua ispezione al campo della Concezione, aveva notato in tutta l’ala destra il verificarsi di alcune lesioni ai muri con "segni visibili di franamento". Il giorno dopo si recò a Campagna un ingegnere del Genio Civile accompagnato dall’Ispettore Generale Antonio Panariello i quali effettuarono subito un sopralluogo nella caserma della Concezione. L’ingegnere in effetti rilevò, "nelle volte e nelle murature maestre della parte frontale e della rimanente ala destra, delle lesioni di natura ed entità tali da inficiarne gravemente la stabilità". Alla luce di tutto questo dunque, fece presente - tanto a Panariello quanto al direttore De Paoli - "la necessità dell’immediato sgombro della parte frontale e di tutta l’ala destra della caserma". Nella stessa giornata, il prefetto D’Andrea comunicò al Ministero l’avvenuto sgombro, facendo quindi notare anche l’eccessivo affollamento determinatosi nella caserma di S. Bartolomeo, resasi ormai "inospitale anche per la scarsezza d’acqua". In conseguenza di ciò egli pregò dunque il Ministero di sospendere l’invio di altri internati a Campagna.
Anche il direttore De Paoli, con una missiva del 26 luglio al Questore di Salerno, precisava l’impossibilità di alloggiare altre persone in entrambe le caserme: "nella caserma di S. Bartolomeo trovansi alloggiati 252 internati e nella caserma Concezione, dopo il parziale sgombero delle ali pericolanti ordinato dall’ingegnere del Genio Civile, vi sono 75 internati. Non è più possibile alloggiare persone in entrambe le caserme e quella della Concezione ha bisogno di un maggiore sgombero di persone e materiali che sarà effettuato in questi giorni perché il prefato ingegnere ha ordinato per motivi di opportunità di non sovraccaricare le due ali del fabbricato non pericolanti".
De Paoli inoltre comunicò - avendo molto probabilmente ricevuto disposizioni in tal senso - di non aver potuto rintracciare, nel comune di Campagna né nelle località limitrofe, altri locali da adibire ad alloggi per internati.
Lo stesso 26 luglio, il Prefetto di Salerno, considerando che in seguito allo sgombro della Concezione erano disponibili ora soltanto 350 posti, comunicò al Ministero che si era pertanto "dovuto necessariamente consentire a taluni internati di prendere posto in camere ammobiliate", facendo comunque "un’accurata selezione", tenendo conto non solo della "disponibilità economica", ma anche dell’età e delle "particolari condizioni di salute".
Erano stati infatti autorizzati a permanere fuori del campo di concentramento quegli internati che, su espresso parere del sanitario della colonia, per le loro deformazioni fisiologiche o per il loro stato di salute (asmatici, cardiopatici, vecchi bisognosi di speciale assistenza etc.) non potevano vivere in comunione con gli altri.
A seguito dell’inconveniente verificatosi nella caserma della Concezione e, scartando ogni ipotesi di riparazione - occorrevano tre mesi di tempo e una spesa di circa centomila lire - anche Panariello fece alcuni indagini per ricercare altri locali da utilizzare come alloggio per gli internati, senza tuttavia trovare alcunché. Egli inoltre precisava: "Nel comune di Campagna si trovano ora 430 internati, e sarà bene sospendere ogni ulteriore invio, anche perché le latrine della caserma S. Bartolomeo sono senz’acqua, e si continua a trasportarla da una fonte vicina con secchi a mano". La proposta di Panariello era quindi quella di non inviare più altri internati a campagna, di sistemare ancora quelli possibili nella caserma di S. Bartolomeo, ed il resto toglierli dalle camere ammobiliate avviandoli ad altra sede.
In seguito a tale proposta, il Ministero dell’Interno, in data 3 agosto, dispose che il numero degli internati fosse ridotto a 350, precisando che una volta raggiunta questa cifra, si sarebbe dovuto provvedere ad inviare nel campo di concentramento, tutti gli internati che a quella data vivevano ancora nelle camere ammobiliate.
Per quanto concerne il servizio di vigilanza, il direttore del campo, De Paoli, chiese alla Prefettura di elevare a 25 il numero degli agenti di Pubblica Sicurezza. Il prefetto comunicò tale richiesta al Ministero, proponendo però l’elevazione fino a 20 agenti, tra cui altri due sottufficiali, in modo tale da poter avere - compreso quello già esistente - un sottufficiale per il Comando di stazione ed altri due "da adibirsi in misura di uno per ogni campo". In un secondo momento poi, si fece presente, che la richiesta di tale aumento si riferiva alle esigenze di servizio preesistenti allo sgombero della caserma Concezione, e che pertanto non era più necessario il richiesto aumento di personale. A proposito degli agenti, è doveroso ricordare che in precedenza, e precisamente il 29 luglio, il direttore De Paoli "in mancanza di un sottufficiale di contabilità", aveva posto al materiale pagamento del sussidio giornaliero per gli internati e sotto la sua diretta vigilanza, la guardia di P.S.
Erano stati infatti autorizzati a permanere fuori del campo di concentramento quegli internati che, su espresso parere del sanitario della colonia, per le loro deformazioni fisiologiche o per il loro stato di salute (asmatici, cardiopatici, vecchi bisognosi di speciale assistenza etc.) non potevano vivere in comunione con gli altri.
A seguito dell’inconveniente verificatosi nella caserma della Concezione e, scartando ogni ipotesi di riparazione - occorrevano tre mesi di tempo e una spesa di circa centomila lire - anche Panariello fece alcuni indagini per ricercare altri locali da utilizzare come alloggio per gli internati, senza tuttavia trovare alcunché. Egli inoltre precisava: "Nel comune di Campagna si trovano ora 430 internati, e sarà bene sospendere ogni ulteriore invio, anche perché le latrine della caserma S. Bartolomeo sono senz’acqua, e si continua a trasportarla da una fonte vicina con secchi a mano". La proposta di Panariello era quindi quella di non inviare più altri internati a campagna, di sistemare ancora quelli possibili nella caserma di S. Bartolomeo, ed il resto toglierli dalle camere ammobiliate avviandoli ad altra sede.
In seguito a tale proposta, il Ministero dell’Interno, in data 3 agosto, dispose che il numero degli internati fosse ridotto a 350, precisando che una volta raggiunta questa cifra, si sarebbe dovuto provvedere ad inviare nel campo di concentramento, tutti gli internati che a quella data vivevano ancora nelle camere ammobiliate.
Per quanto concerne il servizio di vigilanza, il direttore del campo, De Paoli, chiese alla Prefettura di elevare a 25 il numero degli agenti di Pubblica Sicurezza. Il prefetto comunicò tale richiesta al Ministero, proponendo però l’elevazione fino a 20 agenti, tra cui altri due sottufficiali, in modo tale da poter avere - compreso quello già esistente - un sottufficiale per il Comando di stazione ed altri due "da adibirsi in misura di uno per ogni campo". In un secondo momento poi, si fece presente, che la richiesta di tale aumento si riferiva alle esigenze di servizio preesistenti allo sgombero della caserma Concezione, e che pertanto non era più necessario il richiesto aumento di personale. A proposito degli agenti, è doveroso ricordare che in precedenza, e precisamente il 29 luglio, il direttore De Paoli "in mancanza di un sottufficiale di contabilità", aveva posto al materiale pagamento del sussidio giornaliero per gli internati e sotto la sua diretta vigilanza, la guardia di P.S.
in alcuni sanatori; a questo riguardo infatti, sappiamo che nel mese di luglio del 1940, furono inviati presso il sanatorio di "Villa Maria" tre ebrei internati a Campagna: Grunbut Desiderio, ricoverato il 10 luglio, Korn Nathan il 15 e Lonis Jean Alfredo anch’egli il 15.
Il 14 settembre, Panariello inviò una nuova relazione sui campi di concentramento di Campagna. Gli internati presenti, compreso un confinato politico, erano 294 così ripartiti: 96 nella caserma della Concezione, 196 in quella di S. Bartolomeo e due, Hirsch Sigismondo e il figlio Giulio, in una camera ammobiliata. Tale eccezione era assolutamente indispensabile, perché i due, essendo asmatici, prima di andare a letto, avevano bisogno di accendere delle polveri antiasmatiche nella stanza, cosa che non sarebbe certo stato possibile fare in presenza di altre persone. L’Ispettore pertanto propose che i due, insieme ad un altro figlio di nome Bernardo - che, per quanto asmatico, poteva dormire con altre persone - fossero allontanati da Campagna ed internati in altro comune. Dal punto di vista strutturale, i lavori alla conduttura dell’acqua erano quasi ultimati. Panariello inoltre comunicò che, nel mese d’agosto, due internati furono colpiti da tifo; malgrado però l’immediato trasporto all’ospedale di Salerno, i due non riuscirono purtroppo a sopravvivere. Riguardo agli altri internati, egli comunicò che erano tutti in misere condizioni economiche e che pertanto mangiavano alla mensa comune. Anche secondo l’Ispettore, la forza di 12 carabinieri e 14 agenti, era più che sufficiente per svolgere il servizio di vigilanza ai due campi di concentramento e per le vie del paese.
Il 16 settembre, il direttore Eugenio De Paoli, stilò un elenco integrale degli internati presenti. Su un totale di 272 persone, vi erano: 162 tedeschi, 20 polacchi, 14 boemi, 8 sloveni, 3 francesi, 2 inglesi, 2 italiani, un rumeno, un ungherese, un iugoslavo, un lituano e un belga; erano inoltre presenti anche 56 apolidi, di cui: 23 ex italiani, 13 ex polacchi, 8 ex tedeschi, 5 ex russi, 3 ex rumeni, 2 ex turchi e un ex lettone. Uno dei due italiani, e precisamente Nunes Franco Giorgio, era un confinato politico. Da tale lista inoltre, si è potuto appurare la presenza di una sola donna e cioè, Piombo Elia - una casalinga di nazionalità francese - e quella di tre rabbini: gli apolidi Blaufeld Wolf e Wachsberger Davide, rispettivamente ex polacco ed ex italiano, e lo sloveno Epstein Bernardo. A parte quella di commerciante - esercitata da ben 72 internati - le professioni erano le più disparate possibili. Molti erano i professionisti tra i quali spiccavano, oltre a 21 medici, dentisti, ingegneri, architetti, avvocati, professori, giornalisti, scrittori, chimici, un consigliere di Stato etc.; anche tra i non professionisti abbiamo comunque notato mestieri particolari e di tutto rispetto: musicisti, attori, cantanti, scenografi, decoratori, pittori e ancora tanti altri. A proposito dei pittori, è doveroso ricordarne in particolar modo uno, dei due internati a Campagna, e cioè, l’apolide ex russo Alessandro Degai. Il pittore nacque a Pietroburgo il 16.3.1890, discendente forse da un ufficiale del Regno Italico, ed egli stesso ufficiale di cavalleria dell’esercito imperiale e dell’armata bianca durante la rivoluzione d’ottobre fino all’esilio in Svizzera, quando aveva già perduto il braccio destro in combattimento. Dal 1935 fu in Italia, dove si dedicò intensamente all’attività di pittore figurinista militare. Circa venti dipinti di Alessandro Degai, riguardanti fatti d’armi e uniformi storiche del Corpo, sono presenti presso il Museo Storico della G. di F. in Roma; altri suoi dipinti si trovano nei musei di Castel S. Angelo, dei carabinieri e dell’Arma del Genio, sempre a Roma. Degai inoltre, eseguì, in omaggio al direttore De paoli, un acquerello dai colori tenui ma decisi, riferito al Regiment Royal Corse-1761. Grazie alla figlia del dott. De Paoli, la professoressa Gioia, sappiamo che il suddetto quadro è ancora oggi collocato dietro la scrivania del compianto genitore.
Ritornando a Campagna, grazie ad alcuni documenti, è stato possibile appurare alcuni trasferimenti e arrivi, relativamente ai mesi di ottobre e novembre. Il 2 ottobre vi furono tre arrivi e 11 partenze tra cui quella di Piombo Elia, l’unica donna presente al campo di concentramento di Campagna, trasferita a Pollenza; il 16 ottobre, 15 partenze, senza nessun arrivo. Il 2 novembre invece, arrivarono 5 internati e ne partirono 11, compreso un certo Rosen Samuele, un agricoltore tedesco trasferito nella vicina Eboli.
Il 12 ottobre comunque, grazie a un nuovo rapporto dell’Ispettore Generale Panariello, sappiamo che gli internati erano 255, di cui 173 alla caserma di S. Bartolomeo e 82 alla caserma della Concezione. Fra gli internati c’era qualcuno che aveva bisogno di indumenti invernali e di sciarpe. De Paoli infatti aveva richiesto 200 maglie, 200 cappotti, 200 vestiti e 200 paia di scarpe, per tenerli depositati e distribuirli ai bisognosi. La spesa sarebbe stata non certo irrilevante; Panariello quindi, fece comprendere al direttore del campo, che sarebbe stato necessario di indagare caso per caso e vedere dunque chi aveva realmente bisogno di panni invernali. Proprio in considerazione dell’approssimarsi della stagione invernale - Campagna per la sua posizione aveva ed ha un clima umido e freddo - Panariello fece inoltre presente al Ministero che De Paoli avrebbe richiesto, a mezzo della Prefettura, alcuni lavori di piccola entità (fornitura di alcune porte, riparazioni di finestre etc.) per evitare il freddo e quindi conseguenti malattie agli internati.
Per quanto riguarda la pulizia delle due caserme, il 14 ottobre, il dott. De Paoli, sottolineò alla Prefettura che la direzione del campo di concentramento di Campagna non aveva, fino a quel momento, sostenuto alcuna spese per il pagamento dei compensi al personale di pulizia. Tutti i servizi di pulizia delle camerate, corridoi, scale, latrine - compreso il trasporto di acqua e la relativa disinfezione - nonché quello di pulizia dei locali della direzione, erano eseguiti volontariamente dagli stessi internati. De Paoli quindi comunicò al Prefetto che avrebbe provveduto a segnalare i loro nomi, al fine di ottenere un giusto compenso, da parte del Ministero, per il servizio da essi svolto. Gli internati addetti alla pulizia della caserma Concezione erano: Bianchi Ervino, Panzieri Angelo, Veneziani Donato e Zarfati Guglielmo; quelli della caserma S. Bartolomeo: Pollak Artur, Fabry Girolamo, Margulius Kurt e Klein Giuseppe. C’è da dire comunque che ai predetti, da parte di ciascuno degli altri internati, era corrisposta spontaneamente la somma di 0,20 lire al giorno.
Ai principi di novembre, Campagna fu colpita da violente piogge; i terranei dei due campi di concentramento si allagarono completamente. Subito gli ingegneri del Genio Civile, invitati dal direttore del campo, si recarono sul posto e, dopo una minuziosa visita agli stabili, ordinarono vari lavori di carattere urgente per l’abitabilità delle due caserme, e lo sgombero del lato destro della caserma Concezione, adibito a caserma degli agenti di P. S., perché pericolante. In conseguenza di quest’ultimo provvedimento, gli agenti furono trasferiti in uno stabile, di proprietà della signora Gabbiano Antonietta, situato al centro del paese.
Anche la mensa, a seguito delle speculazioni esercitate dal gestore Bubbolo Antonio che cercò di darla in subaffitto, fu affidata a un internato, il tedesco Salzer Massimiliano, cuoco di professione.
Il 19 novembre la DELASEM , l’unione delle comunità israelitiche italiane, inviò una lettera ad uno degli internati nella quale si precisava la possibilità per essi - in seguito al Decreto del 4-9-40 - di essere impiegati in determinati lavori, purché non eccessivi, conformi al loro rango e tali da non implicare partecipazioni ad operazioni belliche.
Da un rapporto fatto nei giorni seguenti da Panariello al Ministero dell’Interno. sappiamo solo che egli diede disposizione di non dare notizia agli internati della suddetta lettera, almeno fin quando non avrebbe avuto a riguardo disposizioni diverse. Dallo stesso rapporto risulta anche che, alla data del 24 novembre, gli internati a Campagna erano 158 nel campo di S. Bartolomeo e 72 in quello della Concezione, per un totale quindi di 230 persone. Il 20 dicembre invece si era scesi a 218 presenze di cui 71 alla caserma Concezione.
5. Il Vescovo Palatucci, un esempio di umanità.
Se c’è un nome rimasto per sempre impresso nella memoria dei cittadini campagnesi, e forse ancor più in quella degli ebrei internati a Campagna, è sicuramente quello di Mons. Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna.
Nato a Montella (Avellino) nella verde Irpinia, il 25 aprile 1892, da genitori di profondi sentimenti cristiani, egli fu il terzo e più giovane dei tre fratelli germani Palatucci, Antonio, Alfonso, Giuseppe, divenuti tutti e tre benemeriti Frati Minori Conventuali di questa nostra Provincia di Terra di Lavoro o di Napoli.
Ricevuto alla vita francescana il 5 giugno 1906, dal P. M. Domenico Tavani, allora Commissario di questa Provincia, più tardi Ministro Generale dell'Ordine, e accolto nel patrio Convento di S. Maria del Monte in Montella, vi terminò gli studi ginnasiali, già ivi iniziati.
Compì l'Anno di Noviziato sulla Tomba del B. Bonaventura a Ravello, dove il 17 gennaio 1909, emise con piena gioia del suo spirito la prima Professione religiosa.
Inviato a Roma a proseguire gli studi presso la Pontificia Università Gregoriana, vi conseguì brillantemente la Laurea in Filosofia, il 5 giugno 1912, avendo contemporaneamente frequentato anche la Pontificia Facoltà di Lettere e di Studi Danteschi all'Apollinare.
Nel 1913 iniziò i suoi studi sacri presso la Pontificia Facoltà Teologica dell'Ordine, nel nostro Collegio Internazionale Romano, seguendo frattanto anche i corsi dell'Accademia Liturgica Romana, dalla quale vide premiati e pubblicati i suoi lavori scolastici e di cui fu poi anche Socio apprezzato.
Ordinato sacerdote a Roma il 29 maggio 1915 e cantata la prima Messa solenne il 31 maggio nella Chiesa di S. Silvestro in Montella, il giorno seguente, — 1° giugno 1915,— si presentò immediatamente per adempiere i suoi doveri civili di richiamato della Grande guerra; fu prima soldato della 10' Compagnia di Sanità in Napoli, per il trasporto dei feriti dalle zone di combattimento, infine Cappellano militare, congedato il 18 ottobre 1919, dopo più di quattro anni di servizio militare, prestato con quell'elevato amore di Patria e intenso spirito sacerdotale, che furono sempre armoniosamente congiunti e operanti in lui.
Ritornato nel nostro Collegio Internazionale di Roma per continuare gli studi interrotti nel periodo bellico, vi conseguì a pieni voti la Laurea in Teologia il 21 luglio 1920, completando ancora meglio la sua già solida formazione scientifica e francescana, a contatto di insigni Maestri e Religiosi della nostra Famiglia Conventuale, fra cui II P. M. Stefano Ignudi di venerata memoria, da cui assorbe largamente lo spirito di fedele aderenza e valorizzazione delle migliori tradizioni dell'Ordine e di continua e aggiornata operosità a servizio della Chiesa.
Venuto in Provincia, dopo brevi permanenze nei conventi di Ravello, Barra e S. Anastasia, il 21 novembre 1921 fu inviato ancora una volta a Roma, dove per due anni fu Professore di Filosofia e Vicerettore del nostro Collegio Serafico di via Antoniana presso le Terme di Caracalla.
Il 22 ottobre 1923 lasciò definitivamente Roma, su richiesta del fratello, P. M. Antonio Palatucci, nuovo Ministro Provinciale di Napoli (1922-1934), il quale benché eletto per la prima volta soltanto nel precedente ottobre 1922, con larghezza di vedute e con vigoroso slancio di volontà, già provvedeva alacremente alla rinascita e riorganizzazione di questa nostra Provincia, duramente provata dalle note soppressioni religiose e loro conseguenze.
Prima pietra di quell'ardita e benefica restaurazione provinciale fu il Collegio Serafico di Ravello, riordinato con nuovi criteri e mezzi, e suo primo e impareggiabile Rettore fu nominato il P. Giuseppe Palatucci, che per 14 anni continui, vi profuse le sue migliori energie giovanili, anche come Superiore del Convento per quasi tutto l'indicato periodo.
Abbondanza di vocazioni, pietà e disciplina, formazione profondamente religiosa, serietà di programmi e di insegnamento scolastico, entusiasmo di iniziative e di opere, fiorirono largamente benedette da Dio in quel Collegio, restaurato e ampliato anche nelle sue vecchie mura e locali, e un soffio di nuova vita corse per tutta la Provincia, maturando gradatamente numerosi frutti di giovani Sacerdoti, plasmati e preparati secondo il migliore spirito francescano.
L'attività di educatore non impedì al dinamico P. Giuseppe di dedicarsi in quegli anni, anche ad un frequente apostolato di predicazione, che da Ravello estese a tutta la Costiera Amalfitana e spesso a varie città del Mezzogiorno d'Italia, in Campania e Lucania, Puglia e Calabria. Onorato di particolare stima e amicizia dal dotto e pio Mons. Ercolano Marini, Arcivescovo di Amalfi, fu da lui delegato a preparare la Ricognizione e Traslazione del Corpo del nostro Venerabile P. Domenico Girardelli da Muro, dalla Cripta alla Chiesa del nostro soppresso Convento di detta città, ciò che fu eseguito con ogni proprietà, e concorso di popolo, il 1° dicembre 1923; dallo stesso Arcivescovo il P. Giuseppe fu poi frequentemente incaricato del disbrigo di importanti pratiche diocesane e fu nominato Vice-Presidente dell'Accademia ecclesiastica e amalfitana di S. Andrea Apostolo.
Nel 1925, nell'imminenza del VII° Centenario della morte di S. Francesco, fondò «Luce Serafica» Periodico Francescano mensile del Mezzogiorno d'Italia, di cui fu primo e ammirato Direttore per 12 anni; periodico che suscitò tanti autorevoli consensi e riunì intorno a sé un gruppo di validi scrittori; che rievocò e sottolineò memorie e figure, presenze e attualità del francescanesimo specialmente meridionale, in passato e al presente sempre attivo e benefico, intrecciate a spunti, ideali e incitamenti di vita cristiana, riportando così nelle nostre regioni, attraverso ad una maggiore divulgazione e cultura serafica, anche un risveglio e un amore più ardente verso il Poverello di Assisi e l'opera sua e dei suoi figli fra noi.
Nel 1928, da parte dell'Ordine, gli fu conferito il titolo di «Maestro in S. Teologia» e nel 1931 quello di «Padre della Provincia»; in questo stesso anno condusse a termine il riscatto degli edifici del nostro Convento di S. Francesco e del Monastero di S. Chiara, ambedue in Ravello, offrendo in permuta all'Autorità comunale locale e come sede del Municipio, un'antica casa gentilizia, acquistata e restaurata allo scopo.
Nell'estate del 1935, dal fratello P. M. Alfonso Palatucci, nuovo Ministro Provinciale (1934-1949), fu inviato come suo rappresentante presso il Principe Umberto di Savoia, che in occasione delle grandi esercitazioni militari estive, che si svolgevano nell'Irpinia, usava spesso sostare nel nostro antico Convento di S. Francesco «a Folloni» in Montella. La cordiale amicizia sorta tra il Principe e il P. Giuseppe in quell'incontro, risultò poi valida alla soluzione di varie difficoltà, non della sola nostra Provincia.
A 45 anni, nel pieno vigore delle sue forze, protese in numerose attività, il P. M. Giuseppe Palatucci fu designato Vescovo di Campagna (Salerno) da Pio XI, il 16 agosto 1937; ricevette la Consacrazione Episcopale dal Cardinale Alessio Ascalesi Arcivescovo di Napoli, il 28 novembre 1937, nella nostra trecentesca Chiesa di S. Lorenzo Maggiore in Napoli, che in quella circostanza, dopo 30 anni di chiusura e di restauri si riapriva al culto e accoglieva il ritorno dei nostri Frati, fino allora tentato invano, presente il P. M. Beda Hess, Ministro Generale dell'Ordine, tra molte Autorità e personalità ecclesiastiche e civili e una folla innumerevole di fedeli; entrò solennemente nella Diocesi affidatagli, il 16 gennaio 1938, accolto da imponenti manifestazioni di popolo, a cui era giunta notizia della pietà, dottrina e operosità del suo novello Pastore.
Cresciuta la dignità dell'ufficio, ma non diminuito lo spirito di dedizione ai propri doveri, egli rimase fedele ai suoi personali impegni di vita francescana, dedicando oltre le sue molte attitudini di mente e di cuore, anche le risorse di nuovi mezzi e possibilità sopravvenutegli, a totale ed esclusivo beneficio e vantaggio della diletta porzione dell'ovile di Cristo e della Chiesa, a lui direttamente commessa.
Restaurò e incrementò il Seminario Diocesano e ridestò nel Clero e nei fedeli la venerazione e il culto per il Santuario locale di S. Maria di Avigliano.
Riorganizzò l'Azione Cattolica in tutti i paesi della Diocesi, che visitò ripetutamente, raggiungendo anche per vie aspre e con cavalcatura, villaggi montuosi e casolari remoti, che da più decenni non vedevano il loro Vescovo.
Attraverso una frequente predicazione e scritti pastorali, solidi e chiari, rinvigorì la fede, i costumi e il senso cristiano della vita in tutti i suoi Diocesani, stringendo intorno a sé specialmente i giovani, gli uomini e le persone colte. Istituì nuove Parrocchie e costruì dalle fondamenta nuove Chiese, facilitando e accrescendo la partecipazione dei fedeli ai loro doveri religiosi e alle funzioni liturgiche.
Celebrò il Congresso Eucaristico a Contursi e attuò la «Peregrinatio Mariae» nell'intera Diocesi, parlando fino a sei volte al giorno, a maree accorrenti di popolo che lo seguivano ovunque, felice e meravigliato egli stesso di vedere crescere e consolidarsi in essi, la pietà eucaristica e mariana.
Incoraggiò e sostenne con ripetuti incontri e interventi tutte le istituzioni benefiche diocesane e cittadine; non si trincerò nel campo strettamente ecclesiastico, ma mediante il prestigio e le aderenze, di cui godeva presso le Autorità civili competenti, locali e centrali, promosse varie realizzazioni di vantaggi materiali ad utilità del popolo; tra cui la sollecita edificazione e distribuzione di numerose case popolari in località più bisognose, la costruzione di un nuovo acquedotto per le città di Eboli e Campagna, la concessione di una indispensabile strada rotabile, tra Campagna e Acerno, invocata invano da quasi un secolo.
Contro le deviazioni e gli errori, agì tempestivamente ed energicamente, con interventi ora pubblici e destinati a tutti, ora riservati e rivolti ai singoli, sempre però coraggiosi ed efficaci.
Fu sua particolare benemerenza la protezione, sostegno e difesa di numerosi ebrei, di perseguitati politici, di angariati e oppressi da qualsiasi specie di ingiustizia, specialmente durante l'ultima guerra, in cui non lasciò nulla di intentato per la salvezza materiale e morale di tutti i suoi Diocesani, senza distinzione di idee e di colori politici; nei micidiali bombardamenti aerei che colpirono anche Campagna, egli come vecchio ed esperto soldato e come Padre sollecito e affettuoso, intrepido e incurante di ogni pericolo, tornò tra le macerie degli edifici crollanti e nelle grotte di rifugio e di ricovero, alla raccolta e cura amorosa dei feriti e al pio e onorato seppellimento dei morti, con tanta premura e abnegazione, che tutti ammirarono ed esaltarono in lui il Pastore solerte e generoso, che da tutto sé stesso per le proprie pecorelle.
Caratteristica dei suoi 23 anni di Episcopato fu una carità profonda, operosa e inesauribile, per cui il suo Episcopio fu la casa aperta a tutti e a tutte le ore; ed egli più che il Vescovo da riverire, fu l'Amico da interpellare fiduciosamente per consiglio nelle incertezze, per soccorsi nell'indigenza, per collaborazione nella soluzione di difficoltà, perfino per presentazione o espletamento di complicate pratiche burocratiche; ed egli, sia che si trattasse di persone ragguardevoli e di importanti materie che di umili popolani e di piccole cose, fu sempre pronto ad intervenire, ad agire e anche a viaggiare, affinché l'aiuto a lui richiesto non venisse a mancare ad alcuno.
E poiché egli, con la modestia di Francescano e la riservatezza di Vescovo, seppe nascondere e velare la maggior parte del suo diuturno e serafico altruismo, nessuno pensò mai a valutare quanta pace e tranquillità egli aveva riportato in anime e famiglie travagliate, quanta fu la sua beneficenza verso i poveri e i derelitti, quanti favori egli elargì o ottenne ai degni e ai meritevoli e talvolta anche ad oppositori e ingrati; ma la sua morte e i suoi funerali rivelarono, sia pure in modo anonimo ma altamente dimostrativo, quanti e quali furono i suoi beneficati e di quanta stima, onore e venerazione egli era circondato.
Alla fulminea e incredibile notizia infatti della sua fine la sera del Venerdì Santo, il popolo di Campagna, che poco prima lo aveva visto attraversare le vie cittadine, si precipitò in folla al portone dell'Episcopio, che bisognò sbarrare e custodire con la forza pubblica, per avere il tempo di rivestire la salma dell'estinto degli abiti pontificali.
Esposto sul feretro a tarda sera nella Cappella del Seminario sulla pubblica via, fu vegliato per tutta la notte da fedeli che si succedevano a frotte incessanti, sostando a lungo e in preghiera presso di lui, con rimpianto commovente e ammirabile.
Il lutto cittadino fu non solo ufficiale, ma generale; il Sabato Santo vide le porte socchiuse e le mura degli edifici della città, cosparse di scritti e di manifesti, esprimenti il particolare cordoglio delle singole istituzioni ecclesiastiche e civili, mentre all'ininterrotto pellegrinaggio dei Diocesani, si univano congiunti, amici, ammiratori e personalità, venute anche da lontano a rendere omaggio allo scomparso.
Le sera di Pasqua, al trasferimento privato dell'estinto dalla Cappella del Seminario alla Basilica Cattedrale, il popolo che, in attesa, stipava le adiacenze, volle e ottenne che la salma fosse trasportata a viso scoperto per le principali vie della città, dove egli era passato per tanti anni benedicente e dove essi vollero ammirare per l'ultima volta il suo volto ancora paterno e sereno, anche nell'immobilità della morte.
Il lunedì dopo Pasqua, — 3 aprile 1961, — ebbero luogo nella Cattedrale di Campagna i solenni funerali.
Erano presenti dieci Vescovi della Regione Campano-Lucana, il Rettore del Pontificio Seminario Regionale di Salerno, il Clero e il Seminario Diocesano di Campagna, il P. Procuratore Generale del nostro Ordine, i Rappresentanti delle tre Famiglie Francescane della Campania, il nostro P. Provinciale delle Puglie i Chierici Professi e Probandi dei nostri Seminari di S. Anastasia e di Nocera Inferiore.
Erano presenti inoltre un folto gruppo di Onorevoli Deputati meridionali, tra cui un Ministro e un Senatore della zona, molte Autorità e rappresentanti, Funzionari e personalità politiche civili, militari e scolastiche delle Province di Salerno e di Potenza, che non tentiamo neppure di numerare, oltre il Sindaco di Campagna e tutti i Sindaci della Diocesi in fascia tricolore e un drappello di soldati che rendevano gli onori militari. I fedeli gremivano in modo inverosimile la vasta Cattedrale e assiepavano innumerevoli le vie circostanti.
Pontificò l'Ecc.mo Arcivescovo Primate di Salerno, parlò in Chiesa l'Ecc.mo Vescovo di Muro Lucano, eseguirono il canto i Chierici dei nostri Seminari.
Terminato il rito funebre, dalla Cattedrale si snodò per le vie cittadine un interminabile corteo, a cui presero parte le Associazioni Cattoliche e Gruppi scolastici, il Clero e le Autorità suindicate, una massa enorme di popolo cittadino e diocesano, affluito da ogni parte dei dintorni; e poi corone di fiori, fiori e fiori ...
A giudizio di persone del luogo, Campagna, a memoria d'uomo, non ricordava di avere visto mai un simile spettacolo; chi ha assistito a quel corteo, può testimoniare che quello non fu uno dei soliti grandi funerali, ma un vero e sentito plebiscito di affetto e un'autentica apoteosi e trionfo.
Al termine del corteo, parlò prima il Sindaco di Campagna e poi vari Parlamentari e Personalità civili, che espressero elevate valutazioni e sentimenti verso l'eccezionale Pastore, che suscitarono la più viva e larga commozione; conclusero gli elogi civili un giovane Sacerdote di Campagna, plasmato e ordinato dal suo indimenticabile Vescovo, e il P. Procuratore Generale del nostro Ordine; poi il feretro proseguì immediatamente per Montella, dove giunse nel pomeriggio, scortato dalle macchine e dai fiori di molti fedeli Campagnesi.
Il martedì dopo Pasqua, — 4 aprile 1961, — nella Chiesa Collegiata di Montella, si ripetettero i funerali, presentì altri quattro Vescovi, molte rappresentanze venute da Campagna, il Clero locale, i nostri Religiosi e Chierici e numeroso popolo della città natale dell'estinto.
Celebrò l' Ecc.mo Vescovo Diocesano di Nusco, disse l'elogio fraterno il nostro P. Silvio Stolfi, eseguirono il canto i nostri Chierici; poi con un secondo imponente corteo, la salma di Mons. Giuseppe M. Palatucci fu trasportata e deposta temporaneamente nel Cimitero della sua natìa Montella, in attesa di essere tumulata definitivamente nella nostra locale Chiesa di S. Francesco «a Folloni», dove aveva pregato fanciullo e si era sentito attrarre verso il Serafico Padre, e dove aveva espresso il desiderio di essere sepolto.
La nostra Provincia religiosa di Terra di Lavoro o di Napoli ha perduto, o forse meglio ha visto scomparire dalla sua presente compagine operativa, un Francescano e un Vescovo incomparabile, un benemerito artefice della nostra rinascita contemporanea, un esempio degno di ammirazione e imitazione, che non deve essere mai da noi dimenticato, ma deve essere spesso ricordato e riproposto ai nostri Religiosi e ai nostri Chierici, come modello di numerose virtù e di edificante operosità.
Fornito di eccellenti doti fisiche, intellettuali e morali, decoroso di persona, acuto di mente, energico di volontà, vivace di spirito, incline alla pietà e alla preghiera, egli seppe tutto coltivare seriamente in sé stesso e dedicare generosamente a Dio, sulle orme e nello spirito del Serafico di Assisi.
Fu Francescano convinto, sincero, «tutto di un pezzo», come si usa dire; semplice nella visione della vita, affabile nella conversazione, franco nelle sue opinioni, leale nelle sue azioni, povero e disinteressato nei suoi favori e prestazioni, esaltatore dello spirito e delle glorie dell'Ordine, austero e costante nell'adempimento delle sue regole e tradizioni.
Fu educatore nato ed efficace, con qualche severità giovanile di disciplina; ma fu sicuro plasmatore e forgiatore delle; anime e delle coscienze dei suoi discepoli, ai quali seppe impartire e donare una solida e profonda formazione francescana, fatta di conoscenza, convinzione, ardore e sacrificio per la grandezza e bellezza dell'ideale sacro e religioso da raggiungere e più ancora per renderlo poi puro, operante e fruttuoso nella vita.
Fu predicatore e scrittore robusto e trasparente, alieno da pose e artifici letterari solido nella dottrina, chiaro nell'esposizione, gradito ai colti, accessibile al popolo, esperto nello scuotere ed entusiasmare le folle nelle manifestazioni religiose, erudito nelle conferenze e nelle trattazioni di argomenti particolari.
Fu sacerdote zelante e integerrimo, sempre proteso nel promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, oltre che con la predicazione, con il consiglio individuale a chiunque si rivolgeva a lui, con la direzione spirituale delle anime consacrate a Dio nei Monasteri e nelle Comunità religiose, con le confessioni assidue al Clero e ai fedeli.
Fu Vescovo pio e dotto, paterno e vigilante, energico e inflessibile quando fu necessario, accogliente e prodigo di ogni aiuto e conforto a lui possibile, umile e tacito negli onori e nei riconoscimenti che pure non gli mancarono.
Il suo Episcopio, il suo tenore di vita, il suo guardaroba, sempre in diminuzione, dicono che egli non dimenticò mai di essere Francescano; Personalità che lo conobbero da vicino dicono che la sua incessante operosità a servizio di tutti, abbia stroncata o abbreviata innanzi tempo la sua vita.
Egli è stato dunque una delle figure odierne più elette e rappresentative di questa nostra Provincia religiosa di Terra di Lavoro o di Napoli, che sta assai bene a fianco alle molte simili, che per dottrina, virtù e azione l'hanno preceduta nei secoli passati; rimane perciò e rimarrà sempre fra noi, non solo in ricordo e benedizione, ma per quanto riguarda il suo autentico francescanesimo, in esempio sempre valido e luminoso, degno di imitazione ed emulazione.
So che la maggior parte dei nostri Conventi gli ha tributato i suffragi prescritti; chi deve ancora, provvedere al più presto a norma dei nn. 267 e 270 delle Sante Costituzioni, Confidando che dal cielo egli continui ancora e più efficacemente l'opera di protezione, dì amore e incremento di questa sua e nostra Provincia, nel nome del nostro indimenticabile P, M. Giuseppe Palatucci e nello spirito del Serafico Padre S. Francesco, vi saluto e benedico tutti di cuore.
Napoli, 15 aprile 1961
Convento di S. Lorenzo Maggiore
P. BONAVENTURA M. MANSI
Ministro Provinciale
6.Gli Ebrei a Campagna (seconda parte).
L’inizio del 1941 fu caratterizzato da alcuni ricoveri presso il sanatorio di "Villa Maria"; cinque furono infatti gli internati ad aver bisogno di cure: Dreschler Leone, Bekermann Sigismondo, Grunhut Desiderio, Korn Nathan e Rebhum Guglielmo. Per il resto tutto procedeva regolarmente.
Le pulizie continuavano ad essere svolte dagli stessi internati i quali però attendevano da mesi gli arretrati dovuti per il loro compenso; il direttore De Paoli allora sollecitò in tal senso la Questura di Salerno sottolineando, tra l’altro, che l’internato Pollak provvedeva anche alla pulizia dei locali della direzione.
Ogni caserma aveva i suoi addetti; alla caserma Concezione vi erano: il saldatore Kniebel Eric, gli impiegati Pollak Arturo e Schneider Teodoro, il commerciante Pechner Enrico e il saponiere Schotten Giacobbe, tutti di nazionalità tedesca.
Alla caserma di S. Bartolomeo c’erano invece: il dott. Horowitz Arturo e il commerciante Buchsbaum Maurizio, entrambi polacchi, e il trio tedesco composto dal decoratore Margulius Kurt, dal commerciante Tuechler Leopoldo e per finire dall’ingegnere Klein Giuseppe. Da un prospetto riepilogativo riguardante appunto il pagamento delle competenze dovute agli internati, sappiamo che a ciascuno di essi spettavano degli arretrati corrispondenti grosso modo alla somma di 500 lire.
Al 24 febbraio gli internati presenti erano 124 alla caserma S. Bartolomeo, di cui 2 in licenza e 2 all’ospedale, e 64 alla caserma Concezione, di cui uno all’ospedale. Panariello riferì nuovamente al Ministero che i due campi si trovavano in condizioni tali da non poter essere isolati dal paese.
Gli internati dunque, sia per la libera uscita che per procurarsi da mangiare - limitatamente a quei pochi autorizzati ad andare in trattoria - dovevano necessariamente attraversare l’abitato per recarsi al centro del paese.
Ora però, in vista della necessità di intensificare la vigilanza nei confronti degli internati - per evitare in modo assoluto che essi venissero a contatto con qualche ricercato - si optò per una limitazione della libera uscita, facendo eccezione soltanto per quei pochi che cucinavano in case private o mangiavano alla trattoria. Il 28 febbraio infatti, il Prefetto comunicò al Ministero dell’Interno che il Questore, dopo aver interpellato il direttore De Paoli, aveva stabilito la concessione di una sola libera uscita agli internati, relativamente alle ore pomeridiane; questo sia per evitare eccessivi contatti con la popolazione civile sia per la probabile presenza, nella provincia di Salerno, di altri paracadutisti nemici. Con l’occasione, il Prefetto fece presente anche la possibilità - essendoci solo 175 presenze - di riunire tutti gli internati in un’unica caserma, apportando così un’economia notevole di mezzi e di uomini e rendendo dunque più efficiente il servizio di vigilanza nei loro confronti. Panariello inoltre, nel rapporto dei giorni precedenti, propose il trasferimento dell’agente di P. S. Russo Antonio, il quale sembrava solito stringere relazioni con donne campagnesi di facile costume, dando luogo così a pettegolezzi e commenti.
Il 25 marzo del 1941, la Prefettura di Salerno comunicò al Ministero dell’Interno che gli internati di Campagna erano stati tutti alloggiati nella caserma di S. Bartolomeo, disponendo così, a decorrere dal 1° aprile, la rescissione del contratto per quanto riguardava la caserma dell’Immacolata Concezione.
Al 27 marzo erano presenti 177 internati. Il musicista polacco Bogdan Zins e il già citato dott. David Schwarz, sarebbero stati di lì a poco tradotti al campo di Ferramonti Tarsia. Panariello confermava la limitazione della libera uscita alle sole ore pomeridiane, facendo presente però, che per aderire alle premure del Vescovo Palatucci, fu concesso agli internati un’ora libera alla domenica, per permettere loro di ascoltare la messa.
Per ciò che riguarda la mensa, nel mese di maggio, la signora Luongo Angela lasciò la sua gestione, a suo dire poco remunerativa. Con soddisfazione degli stessi internati, che trovavano la cucina di loro gradimento, ne assunse la direzione il cuoco Salzer Massimiliano. Anche i prezzi praticati erano decisamente modici; per una minestra, ad esempio, si pagava 1 lira, per un arrosto di manzo con due contorni occorrevano invece 2,80 lire.
Per quanto riguarda il resto, anche se gli internati non se la passavano affatto male, essi avevano comunque dei desideri e delle lamentele da esporre.
Grazie alla Nunziatura Apostolica d’Italia, le richieste arrivarono fino al tavolo dell’Ispettore generale Antonio Panariello. Queste le richieste degli internati:
1) una maggiore illuminazione;
2) un riscaldamento per l’inverno, essendo il locale umidissimo e in pessime condizioni;
3) di poter uscire di nuovo la mattina e di poter stare fuori, nelle ore serali, sul terrazzo della caserma;
4) di potersi recare per i bagni al fiume Tenza, anche se accompagnati, e di poter andare al campo sportivo per giocarvi nelle ore in cui non vi erano altre persone; infine essi chiedevano maggior serietà alle autorità preposte alla censura, ritenendo che gli agenti incaricati, nel momento in cui non capivano quello che leggevano, cancellavano tutto.
Il 30 giugno 1941 arrivò il nuovo direttore del campo in sostituzione di De Paoli; gli ebrei presenti erano 178, di cui 2 all’ospedale. Al nuovo funzionario Panariello fece presente tutti gli inconvenienti ai quali aveva dato luogo il suo predecessore, avvertendolo di non fare alcuna innovazione o modifica alle disposizioni date, sia per la libera uscita e per la zona entro cui gli internati potevano circolare, che per i pochi permessi dati a quelli che mangiavano in paese.
Alla base del provvedimento pare che vi fosse un diverbio sorto tra il dott. De Paoli e l’Ispettore Panariello. Quest’ultimo dopo aver proposto la riduzione dei luoghi adibiti ad alloggi e l’uso dei letti a castello, affermò che al campo "si dormiva troppo comodamente ed i suoi ospiti non dovevano mai dimenticare di essere degli internati"; il dott. De Paoli per tutta risposta apostrofò coloritamente l’Ispettore determinando così il suo trasferimento. "Ricordo ancora come fosse ora - racconta la figliola Gioia allora presente - con quanta commozione, fino alle lacrime, gli internati ci accompagnarono ai limiti del campo quando partimmo. Toccante fu anche la separazione da Mons. Palatucci, anche se ci saremmo potuti rivedere nella vicina sua terra natale, l’Irpinia, dove noi avevamo residenza stabile.
In una lettera (27.7.90) indirizzata alla prof.ssa Gioia, Charles Wiley (già Weil), battezzato a Campagna, ricorda come il direttore De Paoli fosse "un uomo retto ed onesto" e come egli rese il suo soggiorno a Campagna, così come quello degli altri internati, "più sopportabile". "Ricordo sempre l’Italia con tanto affetto non solo per le sue bellezze naturali, ma quanto per la sua gente, che sono convinto è fra le migliori al mondo". Wiley su tre anni di internamento, rimase per un anno a Campagna, a suo dire, "fra gente tanto magnanima, così diversa dalla brutalità diabolica tedesca".
La madre e il fratello infatti furono vittime di tante atrocità ad Auschwitz. "Non so neanche dove sono le loro ceneri. Ricordo con affetto il signor De Paoli e con grande stima e gratitudine il Vescovo Palatucci che sempre tentò di salvare mia madre e mio fratello dalle zanne bestiali dei tedeschi". Grazie a Wiley sappiamo che il dott. Hajek - che non risulta però dall’elenco datato 16.9.1940 - tornò in Cecoslovacchia, dove nel 1946, fu nominato diplomatico a Roma e dimissionario dopo qualche anno, andò a risiedere in Inghilterra; il dott. Prohaska, boemo, si sposò invece con un italiana a Milano.
Questi ed altri nomi sono stati ricordati anche dalla figlia del dott. De Paoli che, come detto, visse all’epoca, con la famiglia, nel campo e che ricorda i rapporti di amicizia mantenuti dopo la Liberazione con suo padre da alcuni internati, come il dott. Horowitz, poi trasferitosi a Napoli.
La prof.ssa Gioia ricorda anche che nei giorni antecedenti al rientro ad Avellino, il compianto genitore esordì all’improvviso con una frase che, alla luce degli episodi verificatisi poi nei giorni successivi, può essere interpretata oggi, quasi come un presagio, allora avvertito, dal direttore De Paoli: "Chissà che non sono anche io ebreo, e da direttore del campo non debba finire internato".
Dalla prof.ssa Gioia si è potuto apprendere degli interessanti aspetti relativi alla vita nel campo di concentramento di Campagna. "Salvo un isolato e anonimo ricorso inviato al Ministero contro il fatto che si consentiva a qualche ebreo di prestare lezioni private ai scolari del luogo, tutti si dimostrarono sempre disponibili a rendere in qualche modo accettabile la permanenza degli internati. Essi potevano circolare liberamente nell’abitato, stabilendo amicizie e talvolta trovando, secondo le disponibilità economiche, anche alloggio esterno agli edifici destinati ad accoglierli; erano inoltre aiutati dalla comunità ebraica, che si occupava, come avvenne per la famiglia Hirsch, anche di pratiche per il loro espatrio". La figliola di De Paoli ha confermato altresì la possibilità, per gli internati di ricevere visite dai parenti.
Non mancavano, poi, iniziative ricreative di vario genere: dalle partite di calcio (si costituì una squadra), alle feste ebraiche e ai concerti. "Alle partite di calcio, nel ruolo di giocatori, partecipava anche il personale addetto alla vigilanza. Ai ricevimenti si prendeva tutti parte indossando, secondo le possibilità, l’abbigliamento più adeguato; il tono era, in queste circostanze piuttosto sostenuto, ed alto era il livello culturale ed artistico: tra i più bravi , c’era Bogdan Zins, polacco, provetto pianista (aveva debuttato all’età di sette anni). Nel campo Zins, che conosceva oltre sei lingue, fungeva anche da interprete presso l’ufficio di direzione; risulta che dopo la Liberazione andò a Milano e poi si trasferì a Chicago.
Altro testimone vivente, internato nel campo di Campagna, è il tedesco Hans Friedjung, attualmente residente a New York. Egli fu trasferito a Campagna, dal carcere di Como, nel giugno 1940 e vi rimase fino al maggio 1942. Durante questa permanenza, ricorda con piacere il Vescovo Palatucci, che invitò più volte, lui e tutti gli altri, nella sua residenza; anche i preti del luogo e la popolazione - di quel paese così povero, desolato e trascurato dal governo fascista - li accolsero con la "massima gentilezza ed amicizia". "Non dimenticherò mai la bontà della popolazione, della chiesa locale e pure delle autorità, che cercavano di fare la nostra vita meno pesante. Non dimenticherò mai il nostro primo direttore del campo De Paoli che purtroppo era stato trasferito in un altro posto per averci trattato troppo bene".
Ritornando ai desideri espressi dagli internati tramite la Nunziatura Apostolica, l’Ispettore Panariello inviò al Ministero il proprio parere, tramite una relazione in cui vennero toccati tutti i punti esposti appunto dagli internati. Per quanto riguarda l’illuminazione, Panariello poté constatarne effettivamente la deficienza, soprattutto nei dormitori, dove vi erano appena due lampadine; egli dunque propose l’installazione di altre 12 lampade, potendo utilizzare anche alcune di quelle che, abusivamente, gli internati avevano inserito nei vari circuiti.
In quanto al riscaldamento, l’Ispettore ritenne inopportuno occuparsene; qualora il campo avesse continuato ad esistere anche per l’inverno successivo, nel mese di settembre si sarebbe potuto provvedere all’installazione di alcune stufe.
Riguardo alla libera uscita, Panariello, d’accordo col Questore Palma, riteneva che agli internati potesse bastare l’uscita nelle sole ore pomeridiane. A suo modo di vedere infatti, non era il caso di fare ulteriori concessioni; questo era necessario per la vigilanza, per la disciplina e soprattutto perché, data l’ubicazione della caserma di S. Bartolomeo, se gli internati avessero potuto uscire anche al mattino, sarebbero stati fuori tutto il giorno, con maggiore possibilità quindi di contatti con la popolazione locale ed eventualmente con persone che potevano recarsi a Campagna da altri comuni.
In quanto alla permanenza sulla terrazza, poiché la ritirata e l’appello si facevano alle ore 21, mentre alle 23 tutti dovevano essere a letto, Panariello espresse parere favorevole affinché gli internati potessero permanervi dalle 21 alle 23, debitamente vigilati.
Anche riguardo ai bagni nel fiume, l’Ispettore, sentito anche il Questore Palma, non aveva nulla in contrario. Il Tenza era in effetti un piccolo fiume che nel punto prescelto raggiungeva appena i 40 centimetri d’acqua, era lontano dal campo circa 300 metri ed era nascosto fra gli alberi: non vi poteva essere quindi né offesa alla morale né possibilità di disgrazie. Anzi considerando che non tutti i locali erano sufficientemente arieggiati, e che già qualche caso di tifo si era verificato nel campo stesso, Panariello pensò bene di autorizzare personalmente - comunicandolo al Ministero - sia i bagni nel fiume che la permanenza sulla terrazza nelle ore notturne, ritenendoli provvedimenti urgenti per ragioni igieniche.
Relativamente al calcio invece, l’Ispettore espresse parere contrario soprattutto per l’impossibilità di esercitare la relativa vigilanza, visto il cospicuo numero di internati e l’esigua presenza di agenti e carabinieri.
Per ciò che riguardava la censura, secondo Panariello, veniva fatta sempre dal funzionario, ad eccezione di quella sulle lingue estere, per la quale le lettere venivano inviate alla Commissione Provinciale di Censura di guerra; l’Ispettore fece comunque nuove raccomandazioni al commissario aggiunto, il nuovo funzionario dirigente del campo, affinché, per nessuna ragione, la censura delle lettere fosse, anche eccezionalmente, devoluta agli agenti.
A proposito della possibilità, per gli internati, di usufruire di qualche licenza, è stato possibile appurarne la veridicità, grazie a un documento dell’11.8.1941 il cui oggetto è proprio una licenza di dieci giorni concessa all’ebreo tedesco Kniebel Enrich - già nominato a proposito della squadra di pulizia della caserma Concezione di cui egli faceva parte - per recarsi a visitare i genitori internati a Sala Consilina.
Il 12 agosto erano presenti alla caserma S. Bartolomeo 152 internati. La vita nel campo si svolgeva regolarmente: gli internati continuavano ad uscire solo nelle ore pomeridiane e a sostare, nelle ore serali, sulla terrazza; la mensa comune funzionava bene e anche le condizioni igieniche erano buone visto, a differenza dell’anno precedente, la completa mancanza di casi di malattie viscerali.
Nei giorni seguenti il direttore Maiello, visto l’accorciamento delle giornate, propose al Prefetto di ridurre, con il 1° settembre, di un ora la libera uscita, portandola così dalle 13 alle 20 e di ridurla poi nel mese di ottobre di un’altra ora. Trovando legittima la richiesta del direttore Maiello, il Prefetto comunicò al Ministero di aver disposto l’attuazione dell’orario proposto. Nel frattempo il Ministero dell’Interno, in data 14 agosto, autorizzò la spesa di 1998 lire per l’impianto di 4 stufe da collocare nella sala del convegno, nell’infermeria, nella direzione e nel corpo di guardia.
A metà settembre erano presenti 141 internati, mentre altri 7 si trovavano all’ospedale e 3 in licenza. Alla mensa mangiavano da un minimo di 30 ad un massimo di 60 internati; la maggiorparte mangiava in alcune camere ammobiliate, dove a piccoli gruppi si riunivano nelle ore di libera uscita, dalle 13 alle 20, e dove il desinare veniva confezionato da alcuni di essi, 11 in tutto, autorizzati a uscire nelle ore antimeridiane. Altri internati mangiavano in trattoria.
Nello stesso periodo un episodio spiacevole coinvolse due internati: a seguito di un alterco, avvenuto per futili motivi fra l’internato Borensztajn Lajbus e Freund Giulio, che ebbe dal primo un pugno alla bocca, Panariello ritenne opportuno proporre al Ministero, il trasferimento in un altro campo di concentramento dell’internato Borensztajn, individuo violento e prepotente. Per quanto riguardava l’internato Freund - che era già stato in precedenza ricoverato presso una clinica psichiatrica di Arezzo - l’Ispettore propose, qualora non vi fossero state ragioni speciali, l’internamento in un comune libero, per dargli così la possibilità di una migliore cura.
A proposito dei trasferimenti, anche se non si hanno molte notizie a riguardo, sappiamo però che nei giorni seguenti vi fu quello riguardante l’internato Hakel Ermanno, il quale fu tradotto al campo di concentramento di Alberobello in provincia di Bari.
Il 25 ottobre gli internati presenti erano 138 più altri otto, assenti perché, o in licenza o all’ospedale o non ancora colà giunti. D’accordo con il Questore di Salerno, Panariello dispose che a partire dal 1° novembre, la libera uscita fosse consentita soltanto dalle 13 alle 17. Egli inoltre raccomandò, al direttore del campo, di fare eseguire con ogni diligenza il servizio di vigilanza soprattutto sugli internati che mangiavano nelle camere ammobiliate, allo scopo di evitare che, nelle camere stesse, si verificassero contatti con persone del posto o provenienti da altri comuni. Panariello sollecitò infine il Ministero per l’esecuzione dei lavori supplementari occorrenti alla caserma S. Bartolomeo, visto il verificarsi di nuovi allagamenti al suo interno in seguito alle prime piogge invernali.
È ormai chiaro a questo punto che, tranne qualche piccola restrizione, gli ebrei destinati a Campagna furono senz’altro fortunati; certo la vita era un po’ sacrificata, ma non dimentichiamo che molti dei loro correligionari (6 milioni), tra i quali i loro familiari, andarono incontro purtroppo a ben altra sorte.
Non tutti vedevano però di buon occhio la libertà goduta dagli ebrei a Campagna; il 29 ottobre infatti, il segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena, inviò una lettera di protesta, al capo della polizia Senise, nella quale testualmente si affermava: "La libertà di cui godono tali internati desta qualche preoccupazione in quanto essi sono molto a contatto con la popolazione civile; alcuni hanno perfino fittato delle camere presso famiglie ed impartiscono lezioni di lingue straniere agli studenti del luogo".
La Prefettura di Salerno, interpellata a riguardo dal Ministero dell’Interno, dispose subito, d’intesa con l’Ispettore Generale Panariello, pronte e diligenti indagini.
Dagli accertamenti eseguiti risultò del tutto infondato che alcuni internati impartissero lezioni di lingue straniere a privati, sia perché a Campagna non vi erano istituti dove tale insegnamento era richiesto e sia perché i pochi studenti di scuole medie, che si recavano altrove per gli studi, non avevano, per motivi di orario e per mancanza di mezzi trasporto, possibilità di avvicinare gli internati. Circa le camere ammobiliate, il Prefetto fece notare al Ministero che si era già provveduto a ridurre il numero allo stretto indispensabile e cioè, come già detto, a 11.
In quanto al contatto degli internati con la popolazione, si fece presente che l’inconveniente era del tutto insormontabile, poiché non era possibile, vista la particolare ubicazione della caserma nel centro abitato, materialmente evitarlo. Inoltre la direzione del campo di concentramento aveva già ridotto le ore di libera uscita da 7 a 4, aveva notevolmente diminuito i permessi agli internati incaricati dell’approvvigionamento e aveva infine intensificato in maniera evidente gli appelli giornalieri; ragion per cui il Prefetto concluse il suo rapporto affermando che sarebbe stato inopportuno imporre altre restrizioni, oltre le quali si sarebbe caduti in ingiustificati eccessi.
Anche Panariello, nella sua relazione inviata al Ministero il giorno seguente rispetto a quella del Prefetto, usò più o meno le stesse parole, aggiungendo che nonostante l’infondatezza delle accuse mosse dal segretario del PNF, si era comunque provveduto ad individuare gli internati che, per cultura e titoli di studio avrebbero potuto dare lezioni di lingua straniera; essi erano 15 e da quel momento in poi sarebbero stati attentamente vigilati. La Direzione Generale di Pubblica Sicurezza comunicò quindi al Sottosegretario di Stato all’Interno che nel campo di Campagna non si trovavano internati pericolosi per i loro precedenti politici ma ebrei che erano stati allontanati dai centri più importanti per motivi precauzionali. Data l’assoluta deficienza di posti disponibili nei campi di concentramento e la continua affluenza, specie dalla Dalmazia, di internati politicamente pericolosi da destinare in campi di concentramento, non era possibile disporre il trasferimento da Campagna degli ebrei colà internati.
Alla data del 7 marzo 1942, gli internati presenti erano scesi a 117 Alla mensa in comune prendevano parte 69 internati i quali provvedevano direttamente alla confezione delle vivande; altri cucinavano a piccoli gruppi adoperando vecchie latte di petrolio con piccoli fornelli, mentre 5 o 6 mangiavano in trattoria.
Nell’aprile del 1942 la Direzione Generale della Sanità Pubblica del Ministero dell’Interno inviò a Campagna l’Ispettore Generale Medico Sica, per verificare lo stato del campo di concentramento di S. Bartolomeo.
Questa grosso modo la relazione dell’Ispettore medico: "Il fabbricato è costituzionalmente inidoneo dal punto di vista strettamente igienico e non è possibile eliminare i più gravi inconvenienti poiché essi sono dovuti al clima (eccessiva umidità), all’ubicazione del fabbricato (al punto più alto della città così che in estate l’acqua non arriva in tutti i locali) ed al sistema costruttivo. Per fortuna si è già provveduto a diminuire il numero degli internati, i quali, tranne un piccolo numero, sono professionisti o negozianti, abituati quindi a una certa proprietà che non è venuta meno anche nelle presenti circostanze e che li spinge quindi a mantenere le corsie e gli altri locali nelle migliori condizioni possibili di pulizia e di ordine. Il servizio medico è disimpegnato da un medico della città, che vi si reca tutti i giorni, coadiuvato da un internato polacco laureato a Padova; vi è un ambulatorio con una piccola infermeria e anche un gabinetto dentistico gestito da un altro internato anch’egli laureato in Italia, nel quale si prendono impronte per apparecchi di protesi che vengono poi costruite a Milano.
Le condizioni sanitarie degli internati sono buone anche se il sapone scarseggia; il medico provinciale non ha potuto inviare tre damigiane di disinfettante perché le ferrovie non ne accettano la spedizione e anche perché il direttore del campo, per mancanza di mezzi, non ha potuto ritirarle. Nell’attesa ho disposto che il prelevamento sia fatto dal deposito comunale, salvo restituzione appena possibile".
A seguito della sua relazione quindi l’Ispettore medico propose:
1) un imbiancamento generale di tutti i locali;
2) l’impianto di lavandini coperti,
3) l’impianto di qualche doccia;
4) la costruzione di un pavimento in legno rialzato nella sala convegni, visto la sua inutilizzazione d’inverno a causa dell’acqua;
5) munire le latrine di adatto sifone, visto che lo sbocco nella fogna sottostante provocava esalazioni che invadevano direttamente i corridoi destinati a dormitori. Infine egli raccomandò di non aumentare nuovamente il numero degli internati.
Nel frattempo Panariello comunicò al Ministero che gli internati presenti al 12 aprile si erano ridotti a 112.
Il 22 seguente, insieme al medico provinciale e a un ingegnere del genio civile, effettuò un sopralluogo al campo di S. Bartolomeo per stabilire, in relazione alla visita fatta dall’Ispettore Generale di Sanità, quali erano i lavori davvero necessari.
Il camerone adibito dagli internati a refettorio, per il quale si proponeva il cambio del pavimento, si trovava, per oltre tre metri, al di sotto del livello del terreno circostante; pur eseguendo lavori di notevole importanza, non si sarebbe mai potuto evitare l’infiltrazione dell’acqua, specialmente durante la stagione invernale.
Si stabilì pertanto di adibire a refettorio, durante l’inverno, una camerata al secondo piano, utilizzando l’altra nei mesi estivi senza recare così alcun danno agli internati.
Era inoltre necessario costituire anche dei pozzetti a chiusura idraulica, che mettessero in comunicazione la fogna scoperta - che emanava un cattivo odore - con la fogna lurida, dove sboccavano le latrine.
Riguardo alla mancanza d’acqua al secondo piano - visto che la caserma si trovava nel punto più alto del paese - Panariello propose la sollevazione dell’acqua occorrente per le latrine per mezzo di un’elettropompa. Nello stesso sopralluogo l’Ispettore poté appurare la presenza di 116 internati.
La capienza del campo era di 250 persone; il Questore di Salerno a seguito della richiesta del Ministero dell’Interno, specificò quindi la possibilità per il Campo di Campagna di ricevere altri 134 internati. In considerazione dei problemi strutturali della caserma però, Panariello ritenne che, tenendo conto anche e soprattutto degli ambienti del secondo piano adibiti per le docce, i lavabo e il refettorio, sarebbe stato opportuno non arrivare a oltre 230 internati.
Il 26 aprile, il Vescovo Palatucci, scrisse una lettera al capo della polizia Senise in cui prospettò la costituzione di una colonia montana, propostagli dall’Ispettore di zona del PNF; mancavano soltanto i locali e Mons. Palatucci propose proprio quelli adibiti a campo di concentramento adducendo due motivazioni: "Prima perché detta colonia toglierebbe dalla strada di questa città tanti poveri ragazzi che formano addirittura uno spettacolo indecente per le strade in cui essi si avvoltolano nella sporcizia materiale e morale; e poi perché allontanando questi internati, si toglierebbe l’occasione per noi italiani di fare continuamente sotto i loro occhi la figura degli straccioni e sporcaccioni".
Nonostante l’insistenza del Vescovo però, Senise gli rispose, pur essendo dispiaciuto, di non poterlo accontentare a causa della completa saturazione degli altri campi di concentramento.
Grazie a una richiesta (una pala e alcuni pappagalli per gli ammalati che non potevano muoversi dal letto), del medico del campo, dott. Fiorentino Buccella, sappiamo che non tutti gli internati ammalati - pur non essendo autosufficienti - venivano mandati all’ospedale; il medico infatti provvedeva alle loro cure direttamente nel campo. Quest’ultimo inoltre, in seguito all’aumento del suo lavoro e del costo della vita, chiese ed ottenne un aumento dello stipendio a 500 lire nette.
Il 26 giugno il capo della divisione G.C.F. Longo, sottolineò al Ministero la necessità di eseguire i lavori per eliminare il lezzo che emanava dalle fogne e dalle latrine del primo piano, provvedendo alla costruzione di nuove latrine, lavabo e docce, per una spesa complessiva di 56000 lire. Dato il carattere urgente del provvedimento, Longo propose di sottoporne l’approvazione direttamente al Comitato Speciale per la Gestione di Guerra che nei giorni seguenti diede infatti il suo assenso.
Il 25 luglio intanto, gli internati risalirono a 198; sul posto era arrivato il nuovo impiegato di polizia Virgilio Domenico. Gli internati, oltre alla libera uscita potevano stare sulla terrazza fino alle ore 21; i bagni nel fiume erano stati sospesi per ragioni igieniche dal medico provinciale, anche se il dott. Fiorentino Buccella, sanitario del campo, riteneva però che nel posto in cui gli internati facevano il bagno, non vi poteva essere inquinamento di sorta.
Si attendeva pertanto, nei giorni seguenti, un sopralluogo del medico provinciale, soprattutto in considerazione del fatto che, essendo estate, un parere favorevole ai suddetti bagni avrebbe sicuramente giovato, da un punto di vista igienico, alla vita in comune degli internati. Panariello comunicò, inoltre, che i lavori autorizzati dal Ministero avrebbero preso il via nei giorni seguenti.
Alla data del 26 agosto, gli internati erano 194. Sul posto era arrivato il nuovo direttore del campo, dott. Carrozzo Salvatore, il quale, secondo Panariello, aveva subito dato un migliore impulso ai vari servizi, specialmente quelli riguardanti l’impiego e l’utilizzazione degli agenti di P. S. in concorso con i carabinieri; il nuovo direttore soppresse subito alcuni permessi per uscire al mattino, concessi dal funzionario precedente, in più del numero stabilito e senza alcuna autorizzazione.
I lavori approvati dal Ministero non erano ancora iniziati a causa del mancato arrivo del cemento necessario. Il medico provinciale intanto, per ragioni igieniche, confermò il divieto di fare il bagno anche nel luogo ritenuto idoneo dal sanitario del campo; in attesa della costruzione delle due docce, già autorizzata, gli internati provvedevano in qualche modo alla loro pulizia con una piccola doccia, adattata alla meglio, utilizzando alcune condutture logore e fuori uso.
Con il rapporto del 30 settembre, Panariello constatò la presenza di 182 internati, oltre a 2 in ospedale e 2 in licenza.
A suo modo di vedere, il nuovo direttore del campo, Carrozzo, si dimostrava molto attento e diligente, occupandosi con assiduità della vigilanza, della mensa e di tutto l’andamento interno. Il dott. Carrozzo provvide anche a sequestrare vari quintali di grano sottratti all’ammasso, arrestando i responsabili.
I lavori intanto erano stati sospesi ancora una volta per mancanza di cemento; Panariello sottolineò al Ministero di aver fatto le opportune sollecitazioni agli organo competenti, per ottenere appunto al più presto il cemento, almeno per terminare gli impianti igienici e sanitari, più che mai necessari.
A proposito delle condizioni sanitarie, il 19 novembre, il Prefetto di Salerno inviò al Ministero dell’Interno una relazione dettagliata del direttore del campo di concentramento, circa appunto il servizio sanitario; ecco alcune delle testuali parole del dott. Carrozzo: "L’assistenza degli internati dal punto di vista sanitario è affidata al dott. Fiorentino Buccella; nel campo funziona un’infermeria, in buone condizioni igieniche, con locale d’isolamento e dotata di un modestissimo mobilio sanitario e di alcuni strumenti di bassa chirurgia.
Lo stesso dott. Buccella, qualora il caso lo richieda, concorre con la prestazione del suo strumentario professionale privato. In detta infermeria vengono ricoverati gli ammalati acuti e nel reparto di isolamento gli infermi affetti da malattie sospette infettive, in attesa di essere ricoverati all’ospedale. Gli ammalati vengono visitati dal predetto sanitario anche più volte al giorno, qualora il caso lo richieda e nelle ore più svariate. Merita a tal proposito di essere segnalata l’intelligente e fattiva collaborazione prestata dall’internato dott. Max Tanzer, laureato in medicina e chirurgia presso l’università di Bologna.
Il dott. Buccella riceve poi ambulatoriamente gli internati infermi in ore a loro riservate, nel suo studio, quando essi sono in condizioni di uscire nelle ore regolamentari.
Gli infermi bisognosi di visite - da parte di specialisti - e di accertamenti diagnostici, vengono, previa autorizzazione di codesta R. Questura, inviati anche di urgenza all’ospedale del capoluogo, come anche vengono parimenti inviati gli internati traumatizzati o infermi affetti da forme gravi o che comunque richiedono cure speciali".
Il dott. Carrozzo concluse infine la sua relazione ritenendo opportuno e necessario che l’infermeria venisse dotata di un microscopio e di una centrifuga a mano, per gli esami microscopici abituali, e di alcuni altri strumenti per la piccola chirurgia.
Ritornando al dott. Fiorentino Buccella, è stato possibile avvicinare la moglie Graziella, ancora oggi vivente , la quale ha potuto confermarci il grande impegno profuso dal compianto marito nei confronti degli ebrei destinati a Campagna: "
Nonostante la sua forte ideologia fascista - ricordo le sue lacrime alla morte di Mussolini - mio marito trattò gli ebrei come persone di famiglia; la nostra casa era sempre aperta agli internati e in particolar modo a due di loro di nazionalità tedesca, di cui però non ricordo il nome, i quali molte volte mi aiutavano perfino nelle faccende domestiche". La signora Buccella inoltre, ci ha dato conferma anche riguardo alle visite fatte dal dott. Fiorentino agli internati, direttamente nel proprio studio.
Questi ultimi - ricorda la signora Graziella - "proprio a testimonianza dell’affetto nutrito per mio marito, gli regalarono un quadro con impresse nel lato posteriore tutte le loro firme"; questo e molti altri ricordi sono purtroppo andati perduti in seguito al sisma del 1980 che distrusse quasi completamente lo studio del Dott. Buccella. Malgrado tutto però, è stato possibile recuperare tra le macerie alcuni suoi effetti personali.
Tra questi, la figlia del dott. Buccella, la signora Antonietta, ha gentilmente messo a nostra disposizione come prima cosa, una cartolina inviata al padre, in occasione del Natale 1948, dal dott. Max Tanzer, l’internato che, come già detto, coadiuvò il dott. Fiorentino nel suo compito di sanitario del campo di S. Bartolomeo; poi, una fotografia raffigurante il dott. Buccella con l’internato medico, il dott. Ladislao Munster, un apolide ex italiano; e per finire un bigliettino inviato al medico campagnese da un altro internato, il dott. Giuseppe Lipenholc, di nazionalità polacca, che gli comunicava una posticipazione del suo matrimonio con la signora Teresa Castagno, una cittadina campagnese conosciuta proprio durante il suo periodo di internamento a Campagna.
La signora Antonietta inoltre, ci ha mostrato anche un acquerello dipinto e donato a suo padre da Alessandro Degai, il pittore russo internato a Campagna, di cui si è già parlato in precedenza.
L’ultimo rapporto di Panariello, relativamente all’anno 1942, da noi conosciuto è quello del 23 novembre. Gli ebrei presenti erano 174; i lavori, grazie all’arrivo di 50 quintali di cemento, erano ripresi e, a breve, si sarebbe installato anche il nuovo motore per l’innalzamento dell’acqua.
Le condizioni igieniche del campo erano buone e l’unico internato, Graetzer Enrico, colpito da tifo e ricoverato all’ospedale verso gli ultimi di ottobre, era guarito e ritornato a Campagna. Panariello comunicò infine che il medico provinciale, in una sua recente visita, aveva notato la necessità, sempre per motivi igienici, di sostituire il pavimento della cucina.
A proposito della vita in comune degli ebrei a Campagna, alcuni aspetti, non ancora affrontati, meritano senz’altro la nostra attenzione. Uno di questi è la possibilità e il modo di vivere la propria religiosità; gli internati riuscirono ad allestire, nel campo di S. Bartolomeo, una sorta di sinagoga, riuscendosi a procurare i rotoli della Torà.
"La DELASEM provvedeva a inviare nei vari campi oggetti di culto e libri di preghiera, e per Pesach, la Pasqua ebraica, in cambio della consegna dei tagliandi della tessera annonaria, il tanto richiesto pane azzimo, il mazzoth.
Ogni anno, prima delle festività ebraiche d’autunno, l’organizzazione assistenziale ricordava con una lettera al Ministero dell’Interno il diritto degli internati a radunarsi per le cerimonie religiose. Non dimentichiamo inoltre che fra gli ebrei internati a Campagna vi furono 3 rabbini.
Anche l’attività culturale era fortemente ridotta. "Gli internati non potevano ascoltare la radio né ricevere riviste o giornali stranieri, ad eccezione della stampa ufficiale tedesca. Proprio a Campagna alcuni internati pubblicavano un bollettino ciclostilato , <
A Campagna gli internati realizzarono anche degli spettacoli teatrali. "Hermann Hakel e il cabarettista viennese Otto Presser scrissero e misero in scena alcuni sketch; forse Hakel esagera quando, ricordando quell’evento, dichiara che durante lo spettacolo di Capodanno si cimentò addirittura nella satira politica, con una scenetta in cui Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt e Stalin litigavano sul futuro del mondo. Secondo lui il direttore del campo, pur essendone stato informato, rinunciò ad infliggergli una punizione". Agli internati era vietato andare al cinema quando vi erano proiezioni per gli abitanti del luogo; "in alcune occasioni però, a Campagna, furono organizzati nelle sale del paese spettacoli cinematografici riservati a loro".
Relativamente al 1943 - ultimo anno in cui funzionò il campo di concentramento di Campagna - è stato possibile reperire soltanto due documenti. Il primo è uno dei, ben noti ormai, rapporti dell’Ispettore Generale di P. S. Antonio Panariello.
Il 31 marzo infatti erano presenti a Campagna 149 internati; 3 di essi si trovavano in ospedale ed uno in licenza.
Tutti i lavori di sistemazione, fra cui quelli per l’innalzamento dell’acqua, erano stati eseguiti; non arrivando però l’acqua al secondo piano, il direttore del campo richiese l’intervento di un ingegnere del Genio Civile che, nel collaudare i lavori stessi, avrebbe dovuto dare disposizioni opportune per eliminare l’inconveniente, in modo da far arrivare l’acqua nei gabinetti e nei lavandini. Panariello comunicò anche di essersi occupato, insieme a un funzionario della Questura di Salerno, della vertenza con la proprietaria dei locali adibiti a direzione del campo di concentramento; a tal proposito sarebbero state fatte delle pratiche con il Vescovo Palatucci, temporaneamente assente, per vedere se si fosse potuto riavere alcuni locali del Vescovado, già occupati nel 1940. Nel caso ciò non fosse stato possibile, secondo Panariello, con piccoli lavori di adattamento, si sarebbe potuto impiantare la direzione al primo piano della caserma di S. Bartolomeo.
Nella visita fatta alla caserma stessa, l’Ispettore constatò che anche altri ambienti avevano bisogno di qualche riparazione e di una generale imbiancatura. Per quanto riguardava i servizi di igiene della mensa, di vigilanza e di revisione della corrispondenza, tutto funzionava regolarmente, così come i registri personali, tenuti nel massimo ordine.
Il secondo documento riguarda una prefettizia del 14 aprile in cui si comunicava al Ministero, le premure rivolte dai quattro internati - addetti alle pulizie del campo di concentramento - affinché gli fosse corrisposto un aumento per il servizio da loro prestato; essi, come già precisato nelle pagine addietro, percepivano un compenso giornaliero di 2,50 lire. Il direttore del campo, in considerazione delle aumentate esigenze della vita e per invogliarli ad essere più diligenti, propose che il compenso giornaliero fosse elevato a 4 lire, chiedendo anche l’assunzione di un altro internato a cui si sarebbe dovuto affidare la cura dell’infermeria; il Prefetto, proprio in considerazione delle motivazioni addotte dal direttore del campo, espresse parere favorevole a tale proposta.
Non sappiamo, data la mancanza di documenti, se tale proposta fu approvata o meno dal Ministero dell’Interno, cosi come non sappiamo cosa accade agli ebrei a Campagna dall’aprile al settembre del 1943, quel fatidico settembre che, come vedremo nel prossimo paragrafo, ha inciso nella memoria di tutti noi, una piccola ma significativa pagina di storia italiana, di cui essere senz’altro fieri ed orgogliosi.
7. La fuga.
La firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 provocò, come sappiamo, la ritirata dei tedeschi dal sud Italia. Pur dileguandosi velocemente verso il nord essi però non mancarono, là dove fu loro possibile, di cercare di mettere le mani sui numerosi ebrei internati e confinati dal governo fascista.
Anche gli internati di Campagna dunque rientravano nei loro piani di rastrellamento; l’intenzione era chiaramente quella di prelevarli dal campo di S. Bartolomeo, portarli al comando tedesco - situato nella vicina Persano a poco meno di 10 chilometri da Campagna - e inviarli quindi definitivamente ai campi di sterminio in Polonia e in Germania.
Grazie però al Vescovo Palatucci ed al tacito assenso del Podestà e del direttore del campo di concentramento, i tedeschi non poterono attuare il loro diabolico piano.
A seguito della testimonianza del sig. Ricco Giuseppe - una delle guardie di pubblica sicurezza operanti a Campagna - è stato possibile risalire all’ultimo direttore del campo di concentramento, il Vice Brigadiere Mariano Acone, il quale si prodigò in ogni modo possibile per favorire la fuga degli ebrei.
I fatti si svolsero essenzialmente in questo modo: nei giorni successivi all’armistizio firmato l’8 settembre, due soldati tedeschi raggiunsero il campo di S. Bartolomeo avvisando l’agente Tagliaferri - addetto alla sorveglianza degli ebrei nel campo - che il giorno seguente sarebbero ritornati per prelevare gli internati. L’agente informò subito dell’accaduto il Vice Brigadiere Acone, il quale, sostenuto dal Vescovo Palatucci e dal Podestà, ordinò a Tagliaferri di mettere gli internati in condizione di fuggire.
E così fu. Durante la notte, con l’aiuto di un piede di porco, Tagliaferri e gli internati stessi divelsero l’inferriata di una delle finestre del secondo piano, dileguandosi poi su per le montagne, situate proprio a ridosso del campo di concentramento di S. Bartolomeo. Anche Ricco, Tagliaferri e gli altri agenti di P. S. - come vedremo nel prossimo capitolo - si diedero alla macchia temendo chiaramente la ritorsione dei tedeschi. Secondo altra fonte invece, gli internati scapparono contemporaneamente all’arrivo dei tedeschi: questi minacciarono la popolazione chiedendo non solo la consegna degli internati, ma anche di armi e di automobili, senz’altro utili per potersi ritirare con più facilità. Nell’avanzare verso il centro del paese però, il carroarmato tedesco si incastrò fortunatamente nella strettoia del Corso Umberto, consentendo così ad Acone di mandare i suoi collaboratori a S. Bartolomeo per liberare gli internati; egli, inoltre, ordinò di mettere delle sbarre di legno alla porta del convento con su scritto: "Gli internati trasferiti per ordine di ufficio - Destinazione ignota".
momenti di panico assoluto, per lui e la sua famiglia, quando comunicò che gli internati non erano più a Campagna. I tedeschi allora gli ordinarono di consegnare la sua arma personale; quando però videro che si trattava di una vecchia pistola, la spezzarono in due parti scagliandola poi a diversi metri di distanza. Rientrato in casa, consegnò tutte le armi che aveva e mentre cercava di spiegare che non ne aveva altre, vide scendere dal castello di fronte alla cattedrale un gruppetto di internati. In effetti nel fuggire dal campo di S. Bartolomeo, la maggiorparte si era nascosta tra le montagne; altri invece costeggiarono il castello di Gerione per sboccare poi nei pressi della casa del Vice Brigadiere. Questi vedendoli scendere - con i tedeschi che gli intimavano di consegnare armi ed automobili, li apostrofò chiamandoli polizia e ordinando loro di andare via a cercare armi. Gli internati rendendosi subito conto della pericolosità della situazione si allontanarono rapidamente dileguandosi tra le case in direzione delle montagne. I tedeschi riuscirono a requisire tre automobili e poche armi; fatti questi rifornimenti, non cercarono più spiegazioni sulla scomparsa degli internati e si allontanarono da Campagna senza fare alcun atto di rappresaglia, soprattutto in considerazione dei bombardamenti e dell’avanzata delle truppe alleate".
"Alla ritirata dei tedeschi, seguì un periodo di grande smarrimento generale; il paese era vuoto, tutti erano fuggiti in montagna temendo i bombardamenti delle forze alleate, che colpirono infatti a più riprese tutto il comune di Campagna. Gli internati vagavano per la montagna senza alcun punto di riferimento così, come già detto, gli agenti addetti alla vigilanza del campo di concentramento, i quali temevano a quel punto sia i tedeschi che gli alleati".
"Il 17 settembre 1943 molte persone - tra cui anche molti ebolitani - si riunirono nella piazzetta antistante al municipio per festeggiare la definitiva cacciata dei tedeschi e l’arrivo delle forze alleate; essi inoltre aspettavano anche la distribuzione della razione giornaliera di pane. All’improvviso si sentì il rombo di un aereo, ma la gente, sapendo che si trattava di un bombardiere alleato, rimase immobile senza scappare; il pilota però, visto l’assembramento, cominciò a bombardare all’impazzata uccidendo centinaia di persone. Gli internati medici scesero immediatamente dalla montagna per prestare soccorso ai feriti; chi superò la paura andò a recuperare i propri morti per portarli al cimitero, ma molti rimasero sulla strada e tanti senza possibilità di identificazione. Alla luce di tutto questo i medici ebrei, per scongiurare la possibile diffusione di un’epidemia, consigliarono di ammassare i corpi e di bruciarli". La scena che mi si presentò davanti agli occhi, ricorda il sig. Cosimo Merola, fu decisamente raccapricciante: "ricordo con esattezza la tecnica usata dai medici ebrei per incendiare i corpi; essi formavano tre o quattro strati di cadaveri intervallandoli con altrettanti strati di legna, erigendo così delle cataste alte all’incirca un metro e mezzo. Non dimenticherò mai l’immagine e l’odore emanato da quelle fiamme, la cenere arrivò addirittura fino alle varie frazioni del comune campagnese".
Da quel momento in poi - come vedremo nel prossimo capitolo grazie alla testimonianza del sig. Ricco - furono proprio gli ex internati, visto lo smarrimento generale, a prendere in mano la situazione dal punto di vista organizzativo.
Le due massime autorità alleate in Italia, l’AMGOT (Allied Militar Government) e l’ACC (Allied Control Commission), crearono diverse organizzazioni destinate a occuparsi in modo particolare dei profughi. A partire dall’ottobre 1943 venne istituita presso la Sezione politica della ACC, la Displaced Persons Sub-Commission, che si prendeva cura esclusivamente degli stranieri e degli apolidi.
La Displaced Persons Sub-Commission aveva il compito di trovare i profughi nelle zone del fronte, registrarli, procurare loro viveri, abiti e medicinali, trovare loro un alloggio e un lavoro e infine fare in modo che al momento opportuno potessero proseguire per il paese dove intendevano emigrare o tornare in quello d’origine.
Particolare importanza rivestivano i Forward Groups: si trattava di unità alle dipendenze della commissione, impiegate nelle zone subito dietro la linea del fronte, con il compito precipuo di distribuire viveri e di prestare assistenza medica.
Date le distruzioni causate dalla guerra, il problema della sistemazione dei profughi poteva essere risolto soltanto alloggiandoli in campi. Fu pertanto deciso, in linea di massima, di lasciare le persone liberate dall’internamento, nei campi dove erano state trovate dai Forward Groups, almeno per il momento. Il campo di Campagna infatti - così come quello di Ferramonti Tarsia - rimase in funzione sotto la direzione di un ufficiale incaricato dalla Displaced Persons Sub-Commission. Già a partire dall’ottobre 1943, tuttavia, l’afflusso di profughi dalla Iugoslavia rese necessaria la creazione di alcuni nuovi campi per Displaced Persons nelle province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto.
Il Campo di S. Bartolomeo rimase in funzione solo fino all’ottobre 1944; gli ultimi 24 occupanti rimasti, delle 150 persone che vi erano al momento della liberazione, vennero inviati al campo di S. Maria al Bagno.
Altro cosa importante da sottolineare è che nei vecchi luoghi di internamento, le prefetture italiane continuarono a pagare il sussidio quotidiano agli ebrei ex internati. Su ordine delle autorità alleate l’importo venne ripetutamente adeguato al carovita, tanto da portarlo, nell’ottobre del 1944, a 25 lire rispetto alle 9 lire iniziali. D’altra parte il sussidio veniva sospeso non appena il beneficiario trovava lavoro potendo quindi provvedere a se stesso. Gli unici posti di lavoro disponibili erano in pratica quelli offerti dagli alleati, soprattutto come interprete, traduttore, stenodattilografo, artigiano o governante. Per molti, e in particolare per coloro che in passato avevano lavorato nel commercio vi era un’altra via d’uscita: il mercato nero, attività assai redditizia soprattutto per chi aveva avuto modo di occuparsene già negli ultimi tempi dell’internamento fascista, durante la crisi dei rifornimenti. Il sig. Raffaele De Chiara, cittadino campagnese, ricorda infatti perfettamente che durante il periodo di internamento degli ebrei a Campagna, ve ne era uno in particolare - un commerciante tedesco di cui però non ricorda il nome - che ogni qualvolta andava in licenza a Napoli riusciva a procurare ai cittadini campagnesi qualsiasi cosa essi avessero richiesto.
È questa, grosso modo, la storia riguardante gli ebrei a Campagna durante il secondo conflitto mondiale; alcuni di loro ritornarono a Campagna dopo la guerra, senz’altro per rivisitare i luoghi del loro internamento, ma ancor di più per ringraziare tutte le persone - con in testa il Vescovo Palatucci e il comandante Acone - che contribuirono in maniera determinante alla loro salvezza. A testimonianza dell’affetto nutrito per la popolazione campagnese, alcuni di essi - emigrati negli Stati Uniti - inviarono del denaro per la ristrutturazione del convento di S. Bartolomeo. Quel convento, malgrado tutto, ha custodito la loro vita preservandola indubbiamente da tutte le atrocità dei lager nazisti, a cui andarono incontro anche molti dei loro parenti più stretti. Ancora oggi infatti nel chiostro dell’ex campo di concentramento di S. Bartolomeo è possibile ammirare una lapide proprio in memoria di quel nobile gesto.
8. CONCLUSIONI
Alla luce di quanto è emerso da questa trattazione sugli ebrei a Campagna durante il secondo conflitto mondiale, è ormai chiaro che il campo di concentramento del piccolo centro salernitano, a parte il nome, non ebbe nulla in comune con i campi nazisti.
A Campagna, infatti, gli internati non vennero mai trattati con crudeltà, sadismo o violenza gratuita; sin dall’inizio, e ancor meglio alla fine della guerra, essi poterono ben capire la differenza del loro internamento rispetto a quello attuato nei Lager del terzo Reich. Valga per tutti l’esempio del dott. Kurt Wolff, finito ad Auschwitz dopo che il figlio Horst, internato a Campagna, tentò più volte di convincerlo a lasciare la Germania, in preda ormai alla persecuzione nazista.
Se poi consideriamo la differenza anche relativamente all’Italia stessa, la storia degli ebrei a Campagna non può non assumere un aspetto ancor più denso di significati; se infatti per questi ultimi - cosi come per quelli internati in altri luoghi del sud - proprio l’internamento in Italia rappresentò la via di accesso alla libertà, per i molti internati al centro, o colà trasferitisi, esso costituì invece una vera anticamera della morte: con l’estensione infatti - anche in Italia - della "soluzione finale" da parte dei nazisti, le milizie fasciste parteciparono su vasta scala alla caccia all’ebreo, macchiandosi così di una gravissima colpa dalla quale non potranno mai essere assolte: alla fine furono 6815 gli ebrei deportati, tra il 1943 e il 1945, nei campi di sterminio nazisti.
Campagna, invece, non volle rendersi complice di una simile crudeltà: il corpo di guardia del campo di concentramento, infatti, con il comandante Acone in testa, e grazie anche alla forte capacità persuasiva del Vescovo Palatucci, si prodigò in tutti i modi per salvare gli internati dalla imminente cattura tedesca.
È questo un piccolo ma significativo pezzo di storia - relativo alla seconda guerra mondiale - che non può far altro che renderci fieri e farci meglio misurare l’abisso in cui nazisti e fascisti avrebbero voluto precipitare il nostro paese.
Concludendo però, bisogna dire che se l’internamento a Campagna - così come quello in altri luoghi del meridione - offrì discrete condizioni di vita, è anche vero che fu proprio l’esistenza degli stessi campi ad offendere e a calpestare la dignità di migliaia di uomini privati della loro libertà.
Ecco perché, anche senza considerare le violenze e le deportazioni del fascismo di Salò, il giudizio sull’internamento degli ebrei a Campagna dal 1940 al 1943, così come quello attuato negli altri campi di concentramento, non può che essere negativo e senza attenuanti.