Milano, 27 luglio 2013. Chi fu realmente Giovanni Palatucci, il poliziotto campano addetto all’ufficio stranieri della questura di Fiume? Fu il “Giusto tra le nazioni” riconosciuto dal museo Yad Vashem di Gerusalemme, annoverato fra i martiri del XX secolo da Papa Giovanni Paolo II e al centro di un processo di beatificazione oppure fu un “pieno esecutore delle leggi razziali,” come ha scritto il Centro Primo Levi in una lettera al New York Times, “il quale, dopo aver prestato giuramento alla Repubblica sociale di Mussolini, collaborò con i nazisti?”. La lettera al quotidiano newyorchese riassume lo studio effettuato dal Centro, che rivede la figura dell’agente di forza pubblica considerato universalmente, fino a ieri, il coraggioso artefice – insieme allo zio vescovo Giuseppe Maria – di molti salvataggi di ebrei, deportato a Dachau proprio a causa delle sue azioni umanitarie. “Il mito di Palatucci iniziò nel 1952,” riferisce la missiva inviata dal Centro Primo Levi al New York Times, “quando lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci raccontò questa storia per garantire una pensione ai parenti dell’uomo (…) Giovanni Palatucci non rappresenta altro che l’omertà, l’arroganza e la condiscendenza di molti giovani funzionari italiani che seguirono con entusiasmo Mussolini nei suoi ultimi disastrosi passi”. Le conclusioni del Centro hanno condotto i principali organismi di studio e memoria dell’Olocausto a sottoporre a nuove analisi la figura di Giovanni Palatucci, con il rischio di vederlo trasformare da eroe ad aguzzino. Ricordiamo che Giuseppe Maria Palatucci fu vescovo di Campagna (Salerno) fra il 1940 e il 1944. Grazie alla sua posizione, poté aiutare gli ebrei internati presso il campo di concentramento locale, operando in sinergia con il nipote Giovanni, che nelle sue funzioni di responsabile dell’ufficio stranieri della questura di Fiume, inviava proprio a Campagna, quando possibile, gli ebrei non residenti arrestati a Fiume. Nel campo di internamento di Campagna, gli ebrei avevano probabilità di sopravvivenza superiori rispetto alle terre balcaniche. Giovanni Palatucci presentava ai suoi superiori – il prefetto e il questore – la proposta dell’internamento nei campi di detenzione del sud come una soluzione efficace per liberare la città di fiume dai profughi, che erano identificati quale minaccia per la pubblica sicurezza.
Da parte mia, ho scritto recentemente un articolo* che sottolinea come non si possano mettere in dubbio le azioni di Palatucci a tutela della comunità ebraica negli anni delle leggi razziali, articolo a cui ha risposto, inviandomi una e-mail, Natalia Indrimi, direttrice del Centro Primo Levi, con cui intrattengo attualmente un carteggio improntato al rispetto reciproco e alla comune ricerca della verità sul poliziotto fiumano e sugli eventi che lo riguardarono, pur se con percorsi di studio e conclusioni completamente diversi.
In questo nuovo articolo, affronto tutti i punti che sono trattati nello studio del Centro Primo Levi, rispondendo con evidenze storiche e testimoniali alle accuse che si propongono di annientare l’immagine del poliziotto di Fiume.
L’accusa più grave riguarda la denuncia da parte di Giovanni Palatucci di una famiglia ebrea nascosta sotto falso nome, in seguito a una richiesta pervenuta tramite un telegramma, datato 23 maggio 1944, dalla questura di Ravenna. Secondo i ricercatori del Centro Primo Levi, Palatucci avrebbe dovuto rispondere che essi non erano residenti fiumani e che non erano noti al suo ufficio né presso la sua anagrafe. Invece la questura ravennate ricevé il seguente biglietto di risposta: “Trattasi di ebrei apolidi fiumani qui irreperibili che identificansi per…”, con i dati anagrafici dei membri della famiglia. Il biglietto era firmato “Pel reggente Palatucci”. Come mi hanno fatto notare ripetutamente alcuni amici, testimoni della Shoah, fra i quali Mirjam Pinkhof, Wolf Murmelstein e Thomas Gazit, i “Giusti tra le nazioni” che operavano dall’interno delle istituzioni nazifasciste dovevano conquistare la fiducia delle stesse, apparendo zelanti e ligi alle regole. Se i superiori avessero nutrito il minimo sospetto sulle loro attività a favore degli ebrei, essi non avrebbero più avuto alcun campo d’azione. Il giornalista canadese Herbert Steinhouse, che conobbe e intervistò Oscar Schindler, riferisce come l’imprenditore-eroe si sforzasse in ogni modo di essere ben accetto ai nazisti, partecipando addirittura ai loro festini e alle loro bevute. Il 23 maggio 1944 Giovanni Palatucci era reggente della questura da meno di due mesi e molto probabilmente il suo operato era già sotto indagine da parte dei suoi superiori, tant’è vero che poco più di tre mesi dopo sarebbe stato arrestato e successivamente internato nel campo di concentramento di Dachau. Il telegramma pervenuto alla questura di Fiume non era riservato personale a lui e dunque il reggente – essendo la richiesta già passata sotto altri occhi – non aveva alcuna possibilità di mentire, negando che i nomi della famiglia ebrea fossero registrati nelle liste poliziesche e all’anagrafe e di conseguenza la risposta fornita alla questura di Ravenna “Per il reggente” non avrebbe potuto riportare null’altro che i dati contenuti negli archivi ufficiali. Vi è un altro punto che il Centro Primo Levi trascura. Giovanni Palatucci, dato il suo lungo incarico presso l’ufficio stranieri della Questura fiumana, si era specializzato nel salvare gli ebrei non residenti, mentre poteva fare ben poco contro il lavoro mortifero degli “spulciatori del registro dello Stato Civile”**. Inoltre, come sottolineano gli stessi ricercatori del Centro Primo Levi, la polizia fascista era organizzata in maniera efficientissima e su un sistema altamente complesso di complicità e paura: impossibile sperare di eluderla, neanche dall’interno, visto che gli ebrei residenti erano schedati e controllati. E’ importante ricordare che le azioni di Palatucci richiedevano un’assoluta segretezza e che il poliziotto aveva pesanti limiti di azione di fronte a richieste ufficiali provenienti dai superiori o da autorità fedeli al regime.
Il Centro Primo Levi, inoltre, fonda la sua tesi anti-Palatucci su un elemento preciso. I suoi ricercatori, infatti, smentiscono tutte le testimonianze a favore del poliziotto, affermando che i testimoni chiave – fra i quali Remolino, Veneroso, Maiocco e Cuccinello – mentirono su tutto, a partire dalle posizioni che avevano all’epoca degli eventi, posizioni che consentirono loro di aiutare il poliziotto di Fiume in alcune delle sue azioni di salvataggio. Da parte mia, ritengo disdicevole mettere in dubbio la parola di persone di grande statura morale, che hanno offerto il loro contributo testimoniale senza alcun vantaggio economico o civile, per il solo amore della verità. La psicologia ci insegna che le testimonianze veritiere sono spesso quelle caratterizzate da incongruenze e contraddizioni, tanto più se esse vengano prodotte a distanza di tanto tempo dai fatti in questione. Il negazionismo sottolinea spesso le incongruenze nelle testimonianze dei sopravvissuti per mettere in discussione nientemeno che lo sterminio di oltre dei milioni di esseri umani. In realtà, le testimonianze di coloro che operarono insieme a Palatucci per salvare vite umane concordano sugli intenti e sui metodi che ispiravano il poliziotto, che Yad Vashem ha giustamente accolto – dopo la verifica di tali prove, insieme a tante altre – nel novero dei “Giusti fra le Nazioni”. Se consideriamo, per esempio, il ruolo che svolse Albertino Remolino, il “postino degli ebrei”, la sua funzione di intermediario fra Giuseppe Maria – lo zio vescovo dell’eroe di Fiume – e Giovanni Palatucci risulta concretamente da alcune azioni umanitarie che purtroppo non si conclusero felicemente per gli ebrei assistiti dai Palatucci. Digitando “Salerno” (o “Altavilla”) nel database che raccoglie i martiri della Shoah, nel sito del Museo Yad Vashem, appaiono 32 nomi di ebrei. Altri nomi, inoltre, sono presenti in una serie di documenti conservati presso gli archivi dello stesso museo Yad Vashem. La località di nascita riportata dalle schede e nei documenti è Altavilla Silentina. Come dimostrato dal giornalista e storico della Shoah Nico Pirozzi in “Fantasmi del Cilento – Da Altavilla Silentina a Lenti un’inedita storia della Shoah ungherese” (Editrice Cento Autori 2007), quegli ebrei erano parte della comunità ebraica di Lenti, in Ungheria, comunità che contava 52 individui in tutto (i restanti figurano anch’essi, purtroppo, fra le vittime della Shoah; per trovare i loro nomi basta digitare “Lenti” nel database). Pirozzi documenta inoltre come fossero stati proprio Giovanni Palatucci e lo zio vescovo a organizzare il piano di salvataggio degli ebrei di Lenti. Attraverso il “postino degli ebrei”, un soldato di leva di Campagna (Salerno), Giuseppe Maria fece pervenire al nipote un numero imprecisato di certificati di nascita e di residenza trafugati dal municipio di Altavilla Silentina (Salerno). I documenti pervennero tramite un altro corriere, alla comunità ebraica di Lenti, che nella primavera del 1944 tentò di utilizzarli per raggiungere Fiume. Il progetto, tuttavia, fallì e i nazisti arrestarono gli ebrei della cittadina ungherese, la maggior parte dei quali trovò la morte nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. In base alle spietate procedure di interrogatorio attuate dai nazisti, è probabile che il nome del questore (o vice-commissario aggiunto) di Fiume sia emerso proprio in seguito agli arresti di Lenti e che l’operazione-salvataggio gli sia costata un’accusa di tradimento e di conseguenza l’arresto, avvenuto il 13 settembre 1944, la deportazione a Dachau e la morte, sopraggiunta il 10 febbraio 1945. Il tentato salvataggio degli ebrei di Lenti è la prova tangibile di come operasse Giovanni Palatucci per salvare gli ebrei perseguitati, non solo trasferendoli nei campi del sud Italia, dove poteva contare sulla cooperazione umanitaria di autorità ecclesiastiche e civili, ma anche producendo documenti falsi, rischiando costantemente la vita, per ingannare la macchina di morte nazifascista. L’archivio di Yad Vashem conserva le schede di ebrei ungheresi che risiedevano in città diverse da Lenti, muniti dei certificati contraffatti dai Palatucci e purtroppo deportati e assassinati nei campi di morte. Per esempio, Izso Eppinger, che viveva a Nagykanizsa, Arpad Deutsch, che abitava a Zalaegerszeg, Jolan Rosenberger, che aveva residenza a Papa. Considerato che l’operazione “Altavilla Silentina” si svolse in diverse località ungheresi, vi è da chiedersi se in alcuni casi essa abbia ottenuto il risultato che i Palatucci speravano ovvero la salvezza di alcuni ebrei che ricevettero la documentazione falsificata. Una cosa è certa. Alcuni ebrei ungheresi raggiunsero realmente la località di Altavilla Silentina, passando per il campo di internamento di Campagna, dove operava monsignor Palatucci. Ne dà notizia il giornalista di Altavilla Silentina Oreste Mottola nell’articolo “Gii ebrei al confino di Altavilla Silentina”, in base a documenti conservati nell’Archivio Storico della Biblioteca Civica di Altavilla Silentina. Se è vero che numerose richieste di espatrio in Sud America e verso altre destinazioni non andarono a buon fine, molte altre, invece, consentirono agli ebrei di Campagna e Altavilla di sottrarsi per sempre alle persecuzioni razziali. Lo stesso Centro Primo Levi riconosce che le vicende di Altavilla Silentina sono particolarmente complesse e richiedono ulteriori analisi documentali.
In uno scritto sull’opera di salvataggio del Vaticano per gli ebrei, conservato – secondo il Centro Primo Levi, che ringrazio di avermelo specificato – in una carta del vescovo, il testimone Rodolfo Grani racconta la propria vicenda presso il campo di internamento di Campagna, “dove eravamo internati in gran massa noi fiumani e il monsignore si è reso indimenticabile fra migliaia e migliaia di nostra gente, aiutandoci, consolandoci con la massima generosità, facendosi fotografare con noi, disgraziati espulsi dalla vita sociale”. Certo, riconoscere l’attendibilità di Rodolfo Grani (attendibilità che la sua vita irreprensibile rende in realtà fatto assodato e incontrovertibile) significherebbe riconoscere il salvataggio da parte di Giovanni Palatucci di 800 profughi ebrei fuggiaschi che dovevano essere consegnati alla Gestapo, nel mese di marzo del 1939. Giovanni Palatucci, dopo essere venuto a conoscenza del pericolo corso da quegli ebrei, avvisò lo stesso Grani, che si attivò e riuscì ad ottenere l’intervento del Vescovo Isidoro Sain, il quale nascose temporaneamente i profughi nella vicina località di Abbazia, sotto la protezione del Vescovado. Nessuno ha mai smentito i fatti come li ha riferiti Rodolfo Grani con dovizia di particolari.
Lo studio del Centro Primo Levi, che mira a negare qualsiasi azione umanitaria a favore degli ebrei da parte di Palatucci, trova uno dei suoi capisaldi nella delegittimazione della testimonianza più importante, quella dello zio vescovo Giuseppe Maria. Nella ricerca effettuata dal Centro, Giuseppe Maria Palatucci emerge come un collaboratore dei nazisti, delatore indifferente alla sorte degli ebrei deportati durante gli anni delle leggi razziali, mentitore, mistificatore e truffatore negli anni successivi alla guerra. Si sarebbe inventato le gesta del nipote, secondo i ricercatori, per consentirae ai genitori di lui di ottenere una pensione. Personalmente, ho una grande stima del lavoro di ricerca svolto finora dal Centro Primo Levi e tuttavia lo studio su Giovanni Palatucci somiglia a quello che oggi chiamiamo “dossieraggio” o “macchina del fango”. Non è accettabile un lavoro basato sulla delegittimazione di tutti i testimoni, di tutti i collaboratori e persino del vescovo di Campagna, medaglia d’oro al merito civile, sul cui operato né durante il nazifascismo né in seguito fu mai gettata da nessuno alcuna ombra. Mettere in dubbio la testimonianza del vescovo significa accusare di complicità, falsità e ignavia anche tutta la cittadinanza di Campagna e i sopravvissuti che elogiarono lo spirito umanitario di Giuseppe Maria. Le parole del vescovo che ricordano il poliziotto di fiume sono sempre state toccanti, commoventi e – nonostante le illazioni sollevate recentemente – vere. In un’intervista Giuseppe Maria*** racconta con parole struggenti l’influenza che i nonni e gli zii sacerdoti ebbero sul giovane Giovanni Palatucci. Poi spiega come il nipote avesse salvato tanti ebrei per essere infine tradito e internato a Dachau, dove trovò la morte. Come si può affermare che un uomo di tale altezza morale abbia strumentalizzato affetti, valori religiosi e ricordi per ottenere, disonestamente, un vantaggio economico per i genitori superstiti al poliziotto fiumano? Con tutto il rispetto che merita il Centro, tutto lo studio sembra un costrutto revisionista, come il libro “En nombre de Franco” del giornalista spagnolo Arcadi Espada, che nega l’opera umanitaria di Giorgio Perlasca, ignorando il valore dei documenti e delle testimonianze che ne attestano – al contrario – la grandezza morale e umana, che ispirò la sua opera a cui si deve il salvataggio di tanti cittadini ebrei.
Secondo il Centro Primo Levi, Giovanni Palatucci non avrebbe salvato alcun ebreo e le sue gesta sarebbero frutto, come scritto sopra, della fantasia e della turpe mendacità dello zio. Lo smentiscono anche qui le testimonianze di alcuni dei salvati: Elena Aschkenasy e i suoi parenti, i genitori di Renata Conforty, Rozsi Neumann, la famiglia Berger, le sorelle Ferber, per non parlare dell’amica ebrea Mika Eisler e della madre di lei.
E’ fondamentale, per inquadrare correttamente la figura di Palatucci, considerare un’altra testimonianza, quella dell’ebreo antifascista Settimio Sorani, responsabile a Roma della Delasem, Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei durante le leggi razziali, autorizzata a operare dal regime fascista a partire dal 1° dicembre 1939 e passata in clandestinità dal 3 settembre 1943, inizio dell’occupazione tedesca. “Quando ebbe coscienza che nelle sue mani di funzionario addetto al controllo degli stranieri, stavano, in gran parte le sorti degli ebrei di Fiume,” scrisse Settimio Sorani, “Palatucci non esitò a prendere posizione conforme alla sua posizione di cristiano e di italiano. (…) A Fiume continuò l’afflusso segreto degli ebrei profughi dall’Europa invasa, che prese proporzioni ampie dopo l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Secondo le disposizioni del prefetto Testa, che fungeva pure da commissario di Stato per i territori jugoslavi aggregati alla Provincia di Fiume, gli ebrei fuggenti dovevano essere colti come in trappola. Grazie invece alla collaborazione di soldati e ufficiali della Seconda Armata la trappola non funzionò. (…) Ufficialmente egli li faceva apparire irreperibili, mentre poi li muniva di documenti alterati. (…) E provvide ad allontanarli da Fiume alla chetichella”. Il metodo di Palatucci, spiegato dalle parole di Sorani, è lo stesso che mostrano i documenti falsificati degli ebrei di Lenti, conservati presso il museo Yad Vashem.
L’ultimo punto sottolineato dallo studio del Centro Primo Levi è il motivo dell’arresto e della deportazione a Dachau, il lager tedesco in cui il poliziotto di Fiume morì. Il Centro riporta il contenuto di un telegramma di Herbert Kappler, il comandante della Gestapo che arrestò Giovanni Palatucci, dove è puntualizzato che Palatucci fu arrestato per avere mantenuto contatti col servizio informativo nemico. I ricercatori dimenticano che in seguito al 3 settembre 1943, data dell’armistizio di Cassibile e inizio dell’occupazione tedesca, gli ebrei furono definiti nel Manifesto di Verona quali “stranieri e nemici”. Palatucci, anche sotto la Repubblica Sociale, operava a contatto con la Delasem. Nella primavera del 1944 aspettava gli ebrei della comunità di Lenti in Ungheria, muniti dei certificati di nascita e di residenza falsificati, in cui essi risultavano nati ad Altavilla Silentina. Per quella sua azione e per tante altre, il poliziotto di Fiume era sicuramente colpevole, agli occhi dei nazisti, di aver mantenuto contatti con il nemico. Di conseguenza, non ha senso dubitare che il suo martirio sia accaduto proprio per le sue azioni umanitarie rivolte alla salvezza degli ebrei.
Link articolo: https://italiaisraele.jimdofree.com/ricordare/il-caso-palatucci/
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